Ai prezzi attuali del combustibile, una stufa a pelletin una stagione può tagliare le spese per il riscaldamento da 100 a oltre 1.200 euro a seconda del tipo di impianto che va ad integrare. Questo modo si scaldare le nostre abitazioni è sempre più popolare: in Italia oggi ci sono circa 1,7 milioni di stufe a pellet e circa 50-60mila caldaie a uso domestico. Un mercato ancora di nicchia, ma che è in forte crescita: i dati di vendita del primo semestre 2013 – ci informano da Assopollet – sono superiori del 30% allo stesso semestre dello scorso anno, più del doppio della crescita media degli ultimi anni, sempre attestatasi attorno al 10%.
Stufe e caldaie a pellett d’altra parte godono anche di diversi incentivi. La facilitazione più usata sono le detrazioni fiscali per le ristrutturazioni edilizie, attualmente al 50%, che valgono anche per l’acquisto ex novo e danno diritto a vedersi rimborsata la percentuale di spesa sotto forma di detrazione Irpef (in 10 rate di pari importo su 10 anni). C’è poi il conto termico, un contributo variabile in base alla zona climatica e alla potenza installata erogato in due anni che però si rivolge solo alle sostituzioni di apparecchi già installati: stufe a legna o vecchie stufe a pellet, e, per le caldaie, caldaie a biomassa o a gasolio e, solo per le aziende agricole, GPL.
Ci sarebbero inoltre, almeno in teoria, le detrazioni fiscali del 65%, che impongono però di sostituire completamente l’impianto di riscaldamento preesistente con una macchina di potenza non superiore e, dunque, sono “pressoché impossibili da ottenere”, come ci spiega Annalisa Paniz, presidente di Assopellet.
Ma vediamo in dettaglio quanto costa e quanto fa risparmiare il pellet. Premettendo che il prezzo ha variazioni stagionali (più basso nel periodo da maggio a luglio, ha un rincaro verso agosto e si stabilizza durante l’iverno), osserviamo che ora, a ottobre 2013, una tonnellata viene venduta a circa 320 euro e il consumatore va a pagare un sacco da 15 kg tra 4,8 e 5,5 euro, molto più caro di quanto costava nello stesso periodo del 2012: circa 250-290 euro a tonnellata e 3,6-4 euro a sacco (in media).
La convenienza comunque resta.
Considerando che una stufa a pellet produce 7,2 MWh termici in un anno (cioè consumi 1,5 tonnellate di pellet, un dato medio per molte case al nord Italia), il pellet farebbe risparmiare circa 1.200 euro nel caso vada ad integrare un impianto a GPL, che diventano 525 nel caso del gasolio e circa 100 per il metano.
Ma come scegliere il pellet migliore? Il consiglio che ci dà Annalisa Paniz, autrice tra l’altro del nostro Speciale Tecnico sul tema, è di optare, quando possibile per prodotti certificati. Il marchio europeo è l’EN Plus che divide i prodotti in 3 categorie a seconda delle caratteristiche chimico-fisiche del pellet: la A1 per il pellet più pregiato, una seconda, detta A2, e una terza contrassegnata con la lettera B nella quale finisce il pellet più scadente, adatto solo ad esser bruciato per usi industriali.
“Per essere sicuri che il pellet sia davvero certificato – ci spiega Paniz – non basta però che ci sia il marchio: deve sempre essere accompagnato da un numero identificativo dell’azienda, altrimenti non ha alcuna validità”. Il numero è formato da due lettere che indicano il paese di provenienza (es. IT per Italia) e da tre cifre. I numeri da 0 a 299 identificano i produttori, quelli oltre 300 gli importatori: sul sito di EN Plus si può verificare che il codice corrisponda al produttore o all’importatore effettivo.
Detto questo, molto pellet in commercio non è certificato, anche perché circa l’80% di quello presente sul mercato italiano è di importazione: gran parte proviene da Europa e Paesi dell’Est, ma una quota anche da Usa, Canada, Sudamerica, Australia e perfino Nuova Zelanda. Se il marchio di certificazione non è segnalato, bisogna verificare che ci siano almeno il nome e i riferimenti del produttore o dell’azienda responsabile della commercializzazione.
Informazioni utili – come residuo di ceneri, potere calorifico e contenuto idrico – ci vengono poi dall’etichetta. Come leggere questi valori? “Si può fare riferimento alla norma per la certificazione – ci spiega la presidente di Assopellet – il parametro più importante è il residuo di ceneri: per il pellet certificato A1 deve essere inferiore allo 0,7% e per quello certificato A2 deve essere inferiore all’1,5%. Pertanto un pellet con residuo inferiore all’1,5% è accettabile, ma è ancora migliore con un residuo inferiore allo 0,7%".
Per quel che riguarda il potere calorifico, scopriamo che l’importanza di quanto scritto in etichetta è relativa: “Diversi produttori indicano valori fuorvianti, scrivendo il potere calorifico del pellet allo ‘stato anidro’: possiamo trovare sulle etichette valori tipo 5,3 kWh/kg. In realtà il potere calorifico reale del pellet è attorno ai 4,7-4,8 kWh/kg, ossia circa 16 MegaJoule. Cifre più alte sono false: il potere calorifico non può essere considerato allo stato anidro ma va misurato per quello specifico pellet con il suo contenuto idrico, mediamente del 6-8%".
Anche la materia prima non è determinante per capire la qualità, fatto salvo che il pellet – come previsto dalla normativa – deve essere fatto con legno vergine che ha subito unicamente trattamenti di tipo meccanico (dunque niente scarti di falegnameria verniciati o incollati). La specie legnosa – spiega l’esperta – conta fino a un certo punto. “Anche se certe specie possono essere particolarmente difficili, va detto che non si trova pellet di castagno o di quercia puro, ma sempre mischiato ad altre specie, ad esempio a faggio o abete”.
Ma la qualità del pellet si può capire a una semplice ispezione visiva? La nota distinzione tra pellet chiaro e pellet scuro, scopriamo, “non ha fondamento: può dipendere dal tipo di essicatoio, quello a tamburo tende a tostare leggermente il pellet, dandogli un colore più scuro”. “La cosa importante – consiglia Paniz – è prendere in mano il sacco e vedere quanti residui di pellet sbriciolato ci sono: deve essere compatto, molti residui indicano pellet di scarsa qualità e che ha subito lunghi spostamenti”.
Considerando che una stufa a pellet produce 7,2 MWh termici in un anno (cioè consumi 1,5 tonnellate di pellet, un dato medio per molte case al nord Italia), il pellet farebbe risparmiare circa 1.200 euro nel caso vada ad integrare un impianto a GPL, che diventano 525 nel caso del gasolio e circa 100 per il metano.
Ma come scegliere il pellet migliore? Il consiglio che ci dà Annalisa Paniz, autrice tra l’altro del nostro Speciale Tecnico sul tema, è di optare, quando possibile per prodotti certificati. Il marchio europeo è l’EN Plus che divide i prodotti in 3 categorie a seconda delle caratteristiche chimico-fisiche del pellet: la A1 per il pellet più pregiato, una seconda, detta A2, e una terza contrassegnata con la lettera B nella quale finisce il pellet più scadente, adatto solo ad esser bruciato per usi industriali.
“Per essere sicuri che il pellet sia davvero certificato – ci spiega Paniz – non basta però che ci sia il marchio: deve sempre essere accompagnato da un numero identificativo dell’azienda, altrimenti non ha alcuna validità”. Il numero è formato da due lettere che indicano il paese di provenienza (es. IT per Italia) e da tre cifre. I numeri da 0 a 299 identificano i produttori, quelli oltre 300 gli importatori: sul sito di EN Plus si può verificare che il codice corrisponda al produttore o all’importatore effettivo.
Detto questo, molto pellet in commercio non è certificato, anche perché circa l’80% di quello presente sul mercato italiano è di importazione: gran parte proviene da Europa e Paesi dell’Est, ma una quota anche da Usa, Canada, Sudamerica, Australia e perfino Nuova Zelanda. Se il marchio di certificazione non è segnalato, bisogna verificare che ci siano almeno il nome e i riferimenti del produttore o dell’azienda responsabile della commercializzazione.
Informazioni utili – come residuo di ceneri, potere calorifico e contenuto idrico – ci vengono poi dall’etichetta. Come leggere questi valori? “Si può fare riferimento alla norma per la certificazione – ci spiega la presidente di Assopellet – il parametro più importante è il residuo di ceneri: per il pellet certificato A1 deve essere inferiore allo 0,7% e per quello certificato A2 deve essere inferiore all’1,5%. Pertanto un pellet con residuo inferiore all’1,5% è accettabile, ma è ancora migliore con un residuo inferiore allo 0,7%".
Per quel che riguarda il potere calorifico, scopriamo che l’importanza di quanto scritto in etichetta è relativa: “Diversi produttori indicano valori fuorvianti, scrivendo il potere calorifico del pellet allo ‘stato anidro’: possiamo trovare sulle etichette valori tipo 5,3 kWh/kg. In realtà il potere calorifico reale del pellet è attorno ai 4,7-4,8 kWh/kg, ossia circa 16 MegaJoule. Cifre più alte sono false: il potere calorifico non può essere considerato allo stato anidro ma va misurato per quello specifico pellet con il suo contenuto idrico, mediamente del 6-8%".
Anche la materia prima non è determinante per capire la qualità, fatto salvo che il pellet – come previsto dalla normativa – deve essere fatto con legno vergine che ha subito unicamente trattamenti di tipo meccanico (dunque niente scarti di falegnameria verniciati o incollati). La specie legnosa – spiega l’esperta – conta fino a un certo punto. “Anche se certe specie possono essere particolarmente difficili, va detto che non si trova pellet di castagno o di quercia puro, ma sempre mischiato ad altre specie, ad esempio a faggio o abete”.
Ma la qualità del pellet si può capire a una semplice ispezione visiva? La nota distinzione tra pellet chiaro e pellet scuro, scopriamo, “non ha fondamento: può dipendere dal tipo di essicatoio, quello a tamburo tende a tostare leggermente il pellet, dandogli un colore più scuro”. “La cosa importante – consiglia Paniz – è prendere in mano il sacco e vedere quanti residui di pellet sbriciolato ci sono: deve essere compatto, molti residui indicano pellet di scarsa qualità e che ha subito lunghi spostamenti”.