In Italia le potenzialità ci sono, ma per ora l’eolico offshore resta un miraggio. Per colpa, soprattutto, di troppa burocrazia e di norme inadeguate che ne bloccano lo sviluppo. Ad oggi, infatti, nel nostro Paese non esiste un solo parco eolico installato a diverse miglia dalle coste. Sebbene i progetti ci siano: in primis, quello proposto da Mediterranean Wind Offshore (gruppo Termomeccanica), da 136 MW nel golfo di Gela con turbine da 3,5 MW, l’unico che è possibile definire realmente offshore. Gli altri progetti in campo, invece, sono di tipo near shore: quello da 30 MW in Puglia, che ha vinto la prima asta eolica a fine 2012. E quello proposto da 4Power al largo di Rimini. Se il presente resta incerto, però le previsioni per il futuro sembrano positive. A sostenerlo è l’Ewea, European Wind Energy Association, che sottolinea come sul territorio nazionale la portata dell’offshore è talmente ridotta da non coprire nemmeno un piccolo spicchio della torta del mercato dell’Unione europea. Il quadro, tuttavia, dalle previsioni dell’Ewea dovrebbe cambiare da qui al 2015, e potrebbe portare l’eolico offshore nazionale a coprire il 2% dell’intero mercato comunitario arrivando a produrre 827,08 MW. Sensibile incremento della produzione anche per Finlandia e Belgio che passeranno dal 2% al 4% e per l’Irlanda dall’1% al 2%. Tutt’altra invece la situazione per la Gran Bretagna che, con i suoi parchi offshore operativi nelle acque comunitarie, attualmente copre il 39% del mercato. Ma che nel 2015 vedrà scendere la sua porzione al 23% cedendo la posizione di leader alla Germania che, a sua volta, con il suo attuale 1% passerà rapidamente al 30%. Stessa sorte della Gran Bretagna toccherà, sempre secondo le stime, alla Danimarca e all’Olanda con il loro attuale 28% e 17%, ma che vedranno ridursi le loro percentuali del 25% e del 9% rispettivamente. In Italia, però, i motivi che frenano l’eolico offshore sono di diversa natura: «In primo luogo, le caratteristiche dei fondali marini — spiega Franco Tozzi, presidente del gruppo Tozzi — : è vero che in generale i fondali sono molto ripidi soprattutto sulla costa tirrenica, che gode di un potenziale maggiore rispetto a quella adriatica. Ciò nonostante è comunque possibile individuare anche nell’Adriatico dei siti che presentano un buon compromesso tra fondali non troppo profondi e buone ventosità. Nel loro complesso, le ventosità medie delle nostre coste non sono allettanti come quelle del mare del Nord, ad eccezione di Sicilia, Sardegna e costa meridionale della Puglia». Anche se, fa notare Tozzi, la ragione principale del mancato sviluppo dell’offshore è l’assenza di riferimenti normativi e la mancanza di linee guide. «Non esistono in Italia le stesse condizioni di chiarezza di cui possono beneficiare operatori in altri Paesi europei. In Spagna, ad esempio, il Governo ha approvato un piano che individua le aree incompatibili con la realizzazione di impianti eolici per ragioni ambientali o di rotte di navigazione commerciali o militari. Così nelle altre aree si possono proporre impianti da sottoporre a valutazione. In Francia, invece, il Governo ha individuato delle aree dove realizzare impianti eolici offshore». Chi opera da tempo in questo settore è il gruppo E. On che ha investito nello sviluppo dell’eolico off-shore circa 4 miliardi di euro. E oggi è il terzo operatore mondiale con 8 impianti già realizzati, alcuni dei quali in partnership con altri operatori, nel Mar Baltico e nel Mare del Nord. «In Italia abbiamo comunque un mix di rinnovabili significativo, da eolico onshore e solare, per circa 380 MW», dichiara Miguel Antoñanzas, presidente e ad di E. On Italia. Mentre tra gli impianti eolici offshore già installati spicca il London Array, il più grande “parco” al mondo, inaugurato a luglio insieme a Masdar e Dong Energy, a circa 20 km al largo delle coste del Kent e dell’Essex nel Regno Unito. L’impianto è costituito da 175 turbine, ognuna dalla potenza installata di 3,6 MW, per una capacità complessiva di 630 MW, in grado di colmare il fabbisogno energetico annuo di quasi mezzo milione di nuclei domestici, consentendo di evitare l’emissione di circa 925.000 tonnellate annue di C02.