In molti campi la storia dell’umanità sembra correre più rapidamente in questi ultimi anni di quanto lo abbia mai fatto prima. E’ come se l’innovazione tecnologica abbia impresso un’accelerazione, spesso imprevista e imprevedibile, al nostro modo di comunicare e accedere alle notizie (senz’altro) e quindi alle nostre “connessioni” e il mondo è sempre più globalizzato. Ma cambiano più rapidamente di quanto avessimo immaginato anche i prodotti e i processi stessi di produzione ed è in questo quadro che dobbiamo leggere la rivoluzione energetica in corso. Per oltre due secoli, dalla rivoluzione industriale, che si compì nel segno del carbone, siamo stati abituati a vivere, progredire, aumentare il nostro benessere, organizzare le nostre società basandoci sullo sfruttamento dei fossili. Certo, lo abbiamo fatto in maniera diseguale, tra popoli, nel Nord del mondo, che hanno goduto i frutti di questa formidabile crescita e altri, al Sud, che sono rimasti ai margini se non del tutto esclusi. E quella ricchezza non si è distribuita equamente neanche all’interno di quei Paesi cosiddetti avanzati. Ma questo è un altro discorso. Ciò che è innegabile è che per duecento anni abbiamo realizzato manufatti, abbiamo spostato le merci, ci siamo mossi, abbiamo riscaldato le nostre case, abbiamo prodotto energia grazie al carbone, al petrolio, al gas. I fossili sono così convenienti, si maneggiano e si trasportano tutto sommato tanto facilmente che hanno rappresentato davvero l’architrave su cui si è fondato lo sviluppo così come lo abbiamo conosciuto sino adesso e quindi, inevitabilmente, anche i nostri sistemi si sono organizzati intorno ai fossili e agli interessi che si sono costruiti su di essi. L’energia la si produce in megacentrali alimentate da fonti fossili e chi le possiede è ricco e potente; tra i poteri forti, le mitiche “sette sorelle”, le multinazionali del petrolio, sono forti tra i forti; i Paesi che hanno nel loro sottosuolo petrolio e gas o carbone svolgono un ruolo importante nello scacchiere geopolitico. Ma tutto questo sta cambiando e sta cambiando, appunto, a un ritmo molto più rapido di quanto si potesse prevedere sino a pochissimo tempo fa. E così nel modo di produrre, distribuire, utilizzare l’energia siamo nel pieno di una rivoluzione. E come sempre, visto che la stessa “non è un pranzo di gala” intorno al cambiamento si consumano scontri di potere formidabili. Il vecchio resiste e le prova tutte per difendersi dal nuovo che avanza. Sta nelle cose, ed è quello che sta succedendo tra fossili e rinnovabili, in Italia e in tutto il mondo. Ciò che è successo è che l’innovazione tecnologica ha permesso di produrre energia da fonti rinnovabili, sole, vento, geotermia, biomasse, in prospettiva persino maree e moto ondoso, a costi sempre più competitivi e paragonabili con quella che si ottiene bruciando fossili. E le rinnovabili hanno un paio di vantaggi formidabili rispetto ai fossili: in sé non costano nulla e sono a disposizione di tutti. Nel momento in cui, scartata l’opzione nucleare, che l’incidente di Fukushima ha definitivamente cancellato dalle opzioni per il futuro e consegnato alle tecnologie del passato, e in cui invece grazie appunto all’innovazione tecnologica, che per sua natura non si può fermare, diminuiscono progressivamente, ma sempre più rapidamente, i costi di trasformazione in energia dal sole e dal vento, il destino della sfida tra rinnovabili e fossili è segnato, inevitabilmente a favore delle prime. E qui siamo in questi primi anni del nuovo millennio. E’ evidente in questa parte del mondo, nella quale la Germania, locomotiva d’Europa, è leader nel ricorso alle rinnovabili ormai da qualche lustro, l’Unione Europea ha imboccato quella strada da tempo, gli Stati Uniti di Obama non mancano di spingere in quella direzione, e anche in Italia la produzione di energia elettrica da rinnovabili ha superato un terzo del totale con il recente impressionante balzo in avanti dovuto al fotovoltaico. Ma è evidente anche in quei Paesi emergenti, guidati dalla Cina che, da una parte è diventato il più grande inquinatore al mondo perché la sua fame di energia l’ha portata bruciare quantità ingentissime di carbone, ma dall’altra aumenta in maniera spaventosa anno dopo anno i suoi investimenti in rinnovabili, non solo per affrontare l’inquinamento a livello locale, che sta diventando un problema sempre più rilevante in moltissime zone di quel Paese, e per avere qualche carta in più da giocare nelle trattative internazionali sui cambiamenti climatici, ma anche perché i dirigenti del PCC hanno capito che quello è il futuro con cui si devono misurare e nel quale dovranno competere con gli altri. E che il futuro sia delle rinnovabili è chiaro persino nel centro del vecchio potere petrolifero. Non si spiegherebbero altrimenti i miliardi di dollari che il Quatar, vero nuovo perno del potere dei paesi arabi e grandissimo esportatore di gas e petrolio, sta investendo nel settore. Mica che lo sceicco è diventato ambientalista, semplicemente ha capito che deve sfruttare le enormi ricchezze che sta realizzando con i fossili per attrezzarsi a un futuro che progressivamente ne avrà sempre meno bisogno. It’s economics, baby. Ma se il futuro è tracciato, decisivo resta capire i tempi in cui lo stesso si realizzerà. E qui entrano in giochi i conflitti durissimi che anche qui in Italia hanno determinato un campagna forsennata contro le rinnovabili. Va ricordato che sino a poco tempo fa il cavallo di battaglia dei cantori della conservazione era tentare di ridicolizzare chi proponeva le rinnovabili sostenendo che mai e poi mai sole e vento (per fermarsi alle nuove tecnologie rinnovabili più diffuse) avrebbero potuto produrre quantità di energia significative, che potessero andare oltre il giochino per boy scout in cui si provava a relegarle. Oggi, di fronte al centinaio di terawattora prodotti in Italia, quest’argomento evidentemente non è più spendibile e quindi è partito il martellamento mediatico contro i costi eccessivi degli incentivi necessari a sostenere queste tecnologie nella loro fase di avvio, e sulla non programmabilità del sole e del vento.
Il primo argomento, quello sui costi, va affrontato seriamente perché il costo che famiglie e imprese sostengono per l’energia è una voce importante nei bilanci familiari e in quelli aziendali e, a maggior ragione in una fase di crisi economica generalizzata, è interesse di tutti tenerlo il più basso possibile. Vero è che si ha uno sguardo lungo, come dovrebbero avere classi dirigenti degne di questo nome, per un Paese come il nostro poverissimo di fossili (anche a voler dar retta alla folle e irrealistica idea di “trivelle libere” contenuta nell’ultima Strategia Energetica Nazionale nel nostro sottosuolo e nei nostri mari ci sarebbe gas e petrolio sufficiente a soddisfare un misero 10% del fabbisogno nazionale) dovrebbe essere evidente la convenienza a liberarsi nel più breve tempo possibile dalla schiavitù dei fossili che ci costa una bolletta energetica di oltre sessanta miliardi di euro all’anno. Ma a guardare bene le cifre, anche nel breve periodo l’attacco alle fonti rinnovabili non si giustifica. Gli incentivi, contro cui si sono concentrati tutti i più recenti Ministri dello Sviluppo Economico (dal pdiellino Romani, al tecnico Passera, al democratico Zanonato) pesano oggi per una decina di miliardi, una cifra certamente non indifferente, ma analoga ai venti miliardi che spenderanno quest’anno i tedeschi in un mercato elettrico doppio del nostro. E soprattutto, se il quadro generale è quello descritto in precedenza, non è stupido e miope lamentarsi dei costi necessari per la realizzazione di nuove infrastrutture indispensabili per il futuro? Con questo approccio non si sarebbero mai affrontati nel secolo scorso, nel nostro Paese e in tutto il mondo, quelli ben più ingenti per la realizzazione di tutte le reti che oggi ci sembrano acquisite: elettrodotti, ferrovie, strade, cavi telefonici. Di questo si tratta. Il meccanismo, peraltro l’unico che si è rivelato efficiente e che ci chiede l’Europa, che impone di far pesare questi costi sulle bollette elettriche e non sulla fiscalità generale, ci ha permesso di farlo senza ricorrere a investimenti dello Stato e senza incidere sul debito pubblico, come invece per la maggior parte dei casi si è fatto nel novecento per le reti. Resta il problema immediato del costo della bolletta elettrica che per le piccole e medie imprese italiane, vero tessuto fondante del nostro sistema economico, è più alto dei loro competitori stranieri. Come agire su questo? Molte sarebbero le strade, senza accanirsi pervicacemente sulle rinnovabili: seguire l’esempio tedesco distribuendo in maniera diversa gli oneri sulle diverse categorie di consumatori, tutelando maggiormente che deve competere con l’estero; intervenire su quelle storture di rete che provocano sprechi di risorse insopportabili (il mancato collegamento elettrico con la Sicilia ci costa circa un miliardo all’anno); operare sugli incentivi diretti e indiretti alle fonti fossili che ci costano qualche altro miliardo. In ogni caso da luglio il nuovo fotovoltaico in Italia non ha più alcun incentivo e anche le altre fonti hanno subito tagli rilevantissimi. Si tratterebbe adesso di creare le condizioni per il loro sviluppo, riducendo burocrazie e ostacoli vari per perseguire con più rapidità possibile l’obiettivo di produrre energia solo da rinnovabili. Il 2050 fossil free è un orizzonte possibile anche per noi, non solo per i tedeschi. E lo è se affrontiamo anche l’altro corno del problema: la non programmabilità. Primo fronte su cui lavorare è senz’altro la rete. Costruita per un modello energetico “fossili e megacentrali” deve essere adeguata alle nuove esigenze della generazione distribuita. L’innovazione tecnologica può darci una mano importante anche in questo settore e tutti i progetti smart, city e grid, appartengono a questo tipo di interventi da stimolare. Secondo fronte gli accumuli: in Germania gli incentivi per le rinnovabili, anche lì in fase di riduzione, si collegheranno sempre di più agli accumuli, ed è questa una strada intelligente. Ma dobbiamo sapere utilizzare anche ciò che abbiamo già a disposizione e che, colpevolmente, invece viene troppo spesso dimenticato: i pompaggi per sfruttare la capacità di accumulo intrinseca dell’idroelettrico. Certo, il fatto che quegli impianti siano posseduti dagli stessi soggetti che hanno interesse a far girare invece il più possibile le centrali termoelettriche rappresenta un evidente conflitto d’interessi che sta provocando uno spreco di risorse per la collettività, mantenendo in alcune ore artificiosamente alto il prezzo dell’energia elettrica, che non può essere più tollerato.
Insomma se si riuscisse a tracciare politiche energetiche finalmente svincolate dagli interessi dei grandi produttori da fossili e che puntassero innanzitutto sull’efficienza energetica (altro fronte su cui l’innovazione tecnologica sta facendo progressi giganteschi) questo Paese potrebbe davvero svolgere un ruolo da protagonista nella rivoluzione energetica in atto. Invece stiamo qui a dover difendere i 17mila MW di fotovoltaico istallato come se fossero un regalo agli speculatori e non un segno di progresso e dobbiamo combattere sedicenti comitati ambientalisti, in realtà ciechi e incapaci dim leggere il futuro desiderabile, contrari agli impianti da fonti rinnovabili. Per carità, anche il bene va fatto bene e quindi anche gli impianti da fonti rinnovabili devono inseriti in maniera rispettosa sul territorio e devono essere fatti secondo logica. E quindi quelli da biomasse per esempio devono essere a filiera corta, quelli eolici rispettosi del paesaggio, il fotovoltaico è meglio sui tetti piuttosto che a terra. Ma le polemiche su presunti veleni che si sprigionano dagli impianti a biogas, le pale eoliche che deturperebbero qualsiasi territorio, e il fotovoltaico che avrebbe distrutto il territorio agricolo sono francamente pretestuose e prive di riscontri reali. E sul fronte dell’efficienza energetica siamo arrivati al paradosso per cui abbiamo dovuto combattere per anni per riuscire a rendere stabile un provvedimento, quello sullo sconto fiscale per le ristrutturazioni edilizie che prevedessero interventi di risparmio energetico, che immediatamente aveva dimostrato la sua efficacia, anche in termini di stimolo a un settore, quello dell’edilizia, altrimenti in grave crisi.
Difficoltà che vanno fatte risalire allo scontro tra vecchio e nuovo e che rischiano, non tanto di impedire l’affermazione di un nuovo modello energetico il cui avvento è inevitabile, ma di farci perdere l’occasione di sviluppo che altri sapranno cogliere nel mondo globalizzato. Molto si è polemizzato, per esempio, sul fatto che gran parte dei pannelli fotovoltaici istallati anche in Italia sono cinesi. Ma si tace sul fatto che la nostra industria nazionale che era all’avanguardia in quel settore all’inizio degli anni 90, con straordinaria miopia decise di uscirne lasciando campo libero agli altri. Prima i tedeschi e poi appunto i cinesi. Quando invece lasciamo liberi di lavorare i nostri talenti dimostriamo di saper primeggiare e negli impianti fotovoltaici i componenti a più alto contenuto tecnologico, che sono gli inverter, molto spesso sono appunto italiani. Questo dovrebbe essere il modello da perseguire con politiche conseguenti.
Le possibilità di contribuire alla lotta, decisiva per il Pianeta, contro i cambiamenti climatici e per uno sviluppo che ci faccia uscire dalla crisi con nuova occupazione ci sono tutte e il modello energetico più efficiente e più rinnovabile è anche una straordinaria occasione di crescita democratica. Sta alla responsabilità della politica saper cogliere le opportunità offerte dall’innovazione. Fino ad oggi in Italia siamo stati ampiamente deficitari da questo punto di vista, ma sperare in un futuro migliore non è vietato , anzi doveroso
*Vicepresidente Kyoto Club