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La febbre del pianeta che Doha (non) curerà

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Si è aperta ieri a Doha, in Qatar, Cop 18: la diciottesima Conferenza della Parti che hanno sottoscritto la Convenzione sui Cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite.

Fonte: L’Unità

Autore: Pietro Greco

Si è aperta ieri a Doha, in Qatar, Cop 18: la diciottesima Conferenza della Parti che hanno sottoscritto la Convenzione sui Cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite. Si tratta di una conferenza interlocutoria. A Doha migliaia di ecodiplomatici provenienti da tutto il mondo, in rappresentanza di quasi 200 paesi, non decideranno nulla, o quasi. Sappiamo già, infatti, che le grandi decisioni – se mai ci saranno – saranno prese solo fra 3 anni, nel 2015.
Eppure ci sarebbero molte condizioni per fare almeno qualche passo avanti nelle politiche di prevenzione, contro i cambiamenti del clima accelerati dall’uomo. La prima condizione è che questi cambiamenti iniziano ad assumere connotati visibili a tutti. La temperatura è aumentata di quasi un grado (0,8 °C, per la precisione) rispetto a un secolo fa. Il livello dei mari di una ventina di centimetri. I ghiacciai sono in ritiro in molte parti del mondo. Gli eventi meteorologici estremi stanno diventando più frequenti. Ce ne siamo accorti noi, in Italia, perché negli ultimi anni le «bombe di calore» e le «bombe d’acqua» sono diventate tanto frequenti da rasentare la continuità. Ma è forse negli più scettici Stati Uniti che – da New Orleans a New York – negli ultimi anni ne hanno avuto una sensazione davvero nuova. In definitiva, la percezione del rischio si sta diffondendo davvero in tutto il pianeta. È con essa la percezione dell’incapacità della politica, a oltre vent’anni da Rio de Janeiro dove venne elaborata la Convenzione per contrastare i cambiamenti climatici, di minimizzarlo, quel rischio.
La seconda condizione è che, alla fine di quest’anno, il 2012, viene a scadenza il Protocollo di Kyoto. Ovvero quella legge internazionale che obbliga quasi tutti i paesi di antica industrializzazione (tranne gli Stati Uniti, che non l’hanno mai ratificato) a ridurre, in media, del 5,2% le emissioni di anidride carbonica rispetto ai livelli di riferimento del 1990. La legge, ancorché farraginosa, ha funzionato. Anche se non è riuscita neppure a rallentare la crescita delle emissioni antropiche di gas serra: mai così alta. Questi paesi potrebbero (dovrebbero) riaffermare gli impegni del Protocollo di Kyoto per esercitare almeno una pressione morale sugli altri (Stati Uniti ma anche paesi a economia emergente, come Cina e India), che finora si sono sottratti a ogni impegno vincolante.
INCOGNITA OBAMA
La terza condizione è che gli americani hanno riconfermato Barack Obama alla Presidenza degli Stati Uniti. Nei prossimi quattro anni Obama ha la sua ultima possibilità di dimostrare che le sue non erano vuote parole quando parlava della prevenzione dei cambiamenti climatici come di una necessità strategica che può (deve) trasformarsi in opportunità di sviluppo. E se gli Stati Uniti modificheranno la loro posizione, quasi certamente faranno altrettanto le grandi economie emergenti (Cina, India, Brasile, Sud Africa). A Doha Obama porrebbe (dovrebbe) «fare una prima mossa». Ci riuscirà?
Una quarta condizione che potrebbe trasformare quella di Doha da Conferenza dall’esito scontato in un «nuovo inizio» viene proprio della geografia. Il Qatar non è solo un paese che ha nella produzione di petrolio una delle massime fonti di ricchezza. È anche uno dei paesi più attivi nel contrastare la politica di prevenzione dei cambiamenti climatici. Molti erano perplessi sull’opportunità di realizzare proprio in Qatar una Conferenza che dovrebbe tagliare i consumi di petrolio. Ma il Qatar potrebbe ammorbidire la sua posizione, facilitando posizioni più accondiscendenti di altri paesi produttori dell’«oro nero», proprio per dimostrare di aver meritato l’onore.
Certo nessuna di questo condizioni positive sembra avere una grande possibilità di realizzarsi in concreto. Non è scontato che la prima condizione, quella della crescente consapevolezza del rischio, dia i frutti politici attesi. Quanto alla seconda condizione, già sappiamo che a Doha alcuni paesi di antica industrializzazione (Canada, Giappone) non sono affatto pronti a rinnovare i vincoli del Protocollo di Kyoto se Stati Uniti e paesi a economia emergente non faranno altrettanto. Inoltre l’Europa, divisa com’è in questo momento, non sembra davvero in grado di fare da (e di apparire come) locomotiva. Quanto a Obama: il suo progetto di green economy ha mostrato qualche limite e poi, col difficile negoziato sul budget federale al Congresso a Washington, è difficile che voglia inasprire il contenzioso con i repubblicani. Infine il Qatar: è davvero improbabile che per un ritorno relativo di immagine metta in discussione i suoi enormi interessi economici. Ecco è tra queste tenui speranze e questo ben fondato pessimismo che si è inaugurata ieri la Conferenza delle Parti che hanno sottoscritto la Convenzione sul clima.