L’Unione europea ha dichiarato pochi
giorni fa la necessità di triplicare i fondi pubblici destinati al
finanziamento della ricerca energetica e una parte di questi dovrebbe
essere rivolta al progetto di riduzione delle emissioni di carbonio
dell’80% entro il 2050.
L’Unione ha ribadito l’importanza di
aumentare i finanziamenti destinati all’incremento della produzione
di energia da fonti rinnovabili e alla riduzione delle emissioni
vista la necessità di competere con le politiche energetiche
proposte da Usa e Giappone, ormai molto avanti nello sviluppo di
tecnologie pulite. Pertanto si prevede di assegnare entro il 2020, un
finanziamento di 16 miliardi di euro all’industria solare, 6 miliardi
al settore eolico e 9 miliardi all’industria delle biomasse e dei
rifiuti. Tra i progetti da finanziare entrano anche quelli di cattura
e stoccaggio dell’anidride carbonica (CCS) cui dovrebbero venir
assegnati 13 miliardi, mentre 7 miliardi andrebbero all’industria del
nucleare e 30 dovrebbero essere destinati alla progettazione e alla
costruzione di 30 città ad alta efficienza energetica.
Ma come verranno gestite queste
risorse? Per quanto riguarda la cattura, stoccaggio e monitoraggio
del carbonio l’Istituto nazionale di geofisica (Ingv) , presieduto da
Enzo Boschi, ha le idee molto chiare, espresse dallo
stesso presidente e da responsabile dell’unità funzionale
“Geochimica dei fluidi, stoccaggio geologico e geotermia”,
Fedora Quattrocchi, nel corso della tavola rotonda
che la “Fondazione Bellona Europa”, in collaborazione con
la “Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile”, ha organizzato
a conclusione della tre giorni della Ccs Expo nell’ambito di Zero
Emission2009.
«Per i primi 20-30 anni di mercato,
tutto ciò che è trasporto e stoccaggio geologico di Co2 sia gestito
e monitorato dallo Stato – ha detto Boschi – Ai privati solo l’onere
della cattura e semmai delle infrastrutture in superficie. Solo dopo
l’avvio di questo periodo di sviluppo e ricerca, anche i privati
potranno accedere al mercato del sottosuolo. Questo principio
dovrebbe essere valido non solo per lo stoccaggio di Co2, ma anche
per quello delle scorie nucleari, gas naturale e geotermia profonda a
bassa entalpia».
I motivi che stanno dietro a
questa posizione ce li ha spiegati proprio Fedora
Quattrocchi.
«La situazione energetica si sta
complicando in quanto si stanno evidenziando con sempre maggiore
forza le necessità di individuare siti di stoccaggio geologici, non
solo per la CO2 ma anche per le riserve strategiche di
metano, siti profondi per geotermia a bassa entalpia (es. tecnica Hot
dry rocks) e adesso, con la volontà di tornare al nucleare, anche
per le scorie ad alta radioattività che ne derivano. Un sistema
complesso che non può rimanere in mano al mercato privato perché
questo non si autoregola. Quindi è necessario operare un’adeguata
pianificazione per individuare quanti siti servono, quali
caratteristiche devono presentare e per far questo è indispensabile
ad una scelta dei siti ed a un monitoraggio che, se fatto da istituti
pubblici offre maggiori garanzie sia in termini di minor costo che di
maggiori competenze, come richiesto anche dall’annesso due della
direttiva europea Ccs, pubblicata mesi or sono, oltre ad offrire
maggiore affidabilità dal punto di vista dell’accettazione sociale.
Fatto questo i privati potrebbero lavorare con regole, standard e
prototipi che lo Stato detta, per la parte relativa alla
realizzazione degli impianti per di stoccaggio, mentre la cattura ed
eventualmente anche le pipeline di trasporto della CO2
rimarrebbero di pertinenza ingegneristica dei privati».
Quindi i privati avrebbero
anche maggiori garanzie sui costi?
«I privati si ritroverebbero così a
gestire risorse certe (soldi di Stato per caratterizzazione
sottosuolo prima e gestione strutture di stoccaggio di superficie
dopo), messe a competizione tramite gare pubbliche e non sarebbero
costretti a dover anticipare grandi quantità di denaro per studi di
fattibilità preliminari, rapporti con le autorità locali,
ambientalisti e assicurazioni: di tutto questo si occuperebbe lo
Stato che metterebbe a gara per i privati ed in fasi diverse:
studi di fattibilità siti, competenze di comunicazione strategica
con le popolazioni/autorità locali, messa in opera di tubi,
compressori e pozzi, gestione sito stoccaggio in superficie,
caricandosi lo Stato i rischi, i rapporti con i politici
“cangianti”, le assicurazioni, il monitoraggio di breve e
lungo termine. A quel punto un investitore moderno e lungimirante,
non deve rischiare più con le banche, e sempre giustificare che lui
è piccolo o e grande, ma vincerebbe la sua gara pubblica avendo
subito soldi certi e sicuri e non a rischio, basta che il curriculum
(direzione tecnica) che valga, per le aziende piccole e dinamiche
come per quelle grandi, perché non sono più richiesti i capitali di
investimento e recupero dai danni possibili dello stoccaggio: il
gestore rimarrebbe gestore delle parti in superficie, es. con
pressioni di pompaggio via via accordate con lo Stato e senza più
rischi. La responsabilità dei danni (micro-sismicità indotta,
etc… ) rimane dello Stato.
I privati sarebbero avvantaggiati dal
fatto che gli standard altamente scientifici (ma non ridondanti,
tipici delle proposte private) del monitoraggio e sarebbe semmai lo
Stato ad accollarsi gli eventuali rischi che lo stoccaggio geologico
profondo potrebbe comportare. I siti di stoccaggio sono da
considerarsi beni primari, come gli acquiferi e quindi bisogna
operare con la massima accuratezza, per questo è bene che il
monitoraggio dei siti lo facciano gli Istituti pubblici. I privati
potrebbero operare in un primo momento solo sulla parte relativa alla
cattura-infrastrutture, e poi solo in un secondo momento quando cioè
tutta la struttura sarà a regime dopo dalle periodo ricerca e
sviluppo, potranno anche gestire i sistemi in profondità0187.
Ma quali sono i costi?
«Il 70% della spesa è nella cattura
ed Enel che è uno dei candidati per i progetti che verranno
finanziati dall’Unione europea si è reso disponibile ad accollarsi i
costi, ma non crediamo sia disponibile a farlo anche per lo
stoccaggio, perché sino a che i costi della CO2 saranno
così bassi, attualmente a 15 euro a tonnellata, non c’è alcuna
convenienza. Inoltre qualsiasi tipo di stoccaggio geologico
è una tecnologia cosiddetta learning by doing, ovvero che
si impara facendola quindi ci sono dei rischi, anche si piccoli e
quantizzabili. Per quanto riguarda il nostro paese è ipotizzabile
che per abbattere il 50% delle emissioni di CO2 siano
necessario individuare circa cinque siti, con circa 20 pozzi. Per i
costi di essi si può ipotizzare la necessità di 2 milioni di euro a
sito, cui poi vanno aggiunti i costi di monitoraggio, manutenzione, e
ovviamente di trasporto/cattura».
Lei pensa che questa tecnologia
potrebbe essere comunque utile al di là dell’utilizzo per fare il
cosiddetto carbone pulito?
«Certo, pensare al Ccs solo come
tecnologia abbinata alle centrali elettriche è riduttivo, perché è
compatibile con tutte le altre tipologie di emissioni, dai
termovalorizzatori, raffinerie alle acciaierie e cementifici.
Emettono tutte anidride carbonica che può essere catturata e
confinata nel sottosuolo. Anzi è una tecnologia che da questo punto
di vista ha grandi potenzialità».
L’Unep ha recentemente
presentato un documento in cui sostiene che le 10 tonnellate di
carbonio prodotte dalle attività antropiche a livello mondiale
potrebbero essere ridotte del 15% e probabilmente più, con una
migliore gestione delle terre e degli ecosistemi. Le che ne pensa?
«Che bisogna tenere bene in conto
degli ordini di grandezza, non solo noi geochimici ma anche i
cittadini. Ricordo che un paio di anni fa il ministero dell’Ambiente
disse, in un incontro alla Fao, che se l’Italia procedesse a una
massiccia riforestazione potrebbe abbattere 10 milioni di tonnellate
di CO2 in 10 anni. Una quantità che con quattro iniettori
può essere sequestrata definitivamente sotto terra – a 800 metri di
profondità- anche in meno di un anno».
La Toscana si era resa
disponibile a studiare la fattibilità di siti di stoccaggio di CO2
nelle aree geotermiche, è una ipotesi fattibile?
«La Toscana l’abbiamo studiata ma non
è idonea, perché per la sua posizione geologica ha troppe sorgenti
naturali di CO2 con minima copertura impermeabile, quindi
se noi andiamo ad aggiungerne nel sottosuolo l’effetto che si ottiene
è una maggiore fuoriuscita dalle vie di fuga che già esistono
naturalmente».