Lo scambio sul posto è il dispositivo grazie al quale le piccole utenze dotate di impianti di generazione distribuita da fonti rinnovabili possono “scambiare” energia con la rete, ossia immettere energia in alcune fasce orarie e prelevarne in altre, ottenendo i medesimi benefici di cui godrebbero se l’energia autoprodotta fosse autoconsumata istante per istante. L’autoconsumo consente di risparmiare non solo il valore dell’energia, ma anche gli ulteriori oneri imputati ai kilowattora che transitano in rete. Lo scambio sul posto ne replica appunto i benefici, grazie al rimborso degli oneri di trasporto e di sistema gravanti sull’energia prelevata, nei limiti di quella immessa nel medesimo periodo (a cui viene riconosciuto il prezzo orario di mercato).
L’Autorità è intervenuta in attuazione del decreto interministeriale 6 luglio 2012, al fine di semplificare il dispositivo. In linea generale l’Autorità ha fatto un buon lavoro, riconducendo il rimborso degli oneri accessori a un numero limitato di parametri convenzionali, la cui quantificazione non richiede l’input delle società di vendita che forniscono l’energia di rete alle singole utenze. L’elaborazione e liquidazione dei corrispettivi di scambio sul posto ne risultano drasticamente semplificati, a tutto vantaggio dell’efficienza ed efficacia del dispositivo.
L’apprezzamento purtroppo finisce qui. L’Autorità ha introdotto un sistema di massimali da fissarsi anno per anno, teso alla riduzione dei benefici dello scambio sul posto, fino al possibile azzeramento del rimborso degli oneri di sistema sull’energia scambiata. L’incertezza su tempi e misura del taglio dei benefici, che investirebbe anche gli impianti esistenti, vanifica la finalità stessa del dispositivo: dare un supporto stabile alla generazione distribuita di piccola taglia, soprattutto in assenza di incentivazioni in conto energia.
Nel provvedimento, l’Autorità esplicita sia gli obiettivi di policy sottesi al contenimento dei benefici dello scambio sul posto, sia i presupposti legali in virtù dei quali l’Autorità ritiene di poter intervenire in tal senso. Ebbene, gli obiettivi sono opinabili, e i presupposti fragili.
Quanto ai primi, l’Autorità stigmatizza l’idea stessa di grid parity, ossia la convenienza della generazione distribuita misurata sul confronto fra costo del kilowattora autoprodotto e prezzo pieno del kilowattora prelevato dalla rete (comprensivo non solo del valore dell’energia, ma anche degli oneri di rete e di sistema). Per l’Autorità la grid parity porterebbe alla realizzazione di impianti inefficienti in termini di costo puro di generazione rispetto agli impianti convenzionali, con esiti distorsivi per il sistema elettrico nel suo complesso. Esiti che i benefici ambientali e di sicurezza energetica delle rinnovabili distribuite non giustificherebbero.
La posizione dell’Autorità non solo è opinabile nel merito, ma soprattutto non può essere base di un intervento regolatorio se non è fatta esplicitamente propria dal legislatore. La riforma dello scambio sul posto non è una raccomandazione al Parlamento o al Governo, ma un atto esecutivo che delinea il possibile ridimensionamento di un dispositivo di supporto alle fonti rinnovabili, sulla base di autonome ed esplicite valutazioni di politica energetica del regolatore. Peraltro, i ragionamenti dell’Autorità rispetto alla grid parity non investono semplicemente lo scambio sul posto, che è una forma “artificiale” di autoconsumo (in quanto usa la rete come dispositivo virtuale di accumulo), ma a ben vedere anche l’autoconsumo in senso stretto.
L’impressione che il provvedimento configuri una forzatura è supportato dalla lettura dei presupposti legali. L’Autorità richiama infatti il decreto del 6 luglio, nel passaggio in cui prevede il riconoscimento alle utenze di “corrispettivi medi forfetari annualmente definiti e pubblicati dall’Autorità per gli oneri mediamente sostenuti per l’utilizzo della rete”. Su tale base, il regolatore conclude che “l’Autorità è tenuta a prevedere l’applicazione all’energia elettrica scambiata di un corrispettivo che tenga conto degli oneri mediamente sostenuti per l’utilizzo della rete (cioè, in particolare, delle tariffe di trasmissione e di distribuzione e dei corrispettivi di dispacciamento), non anche necessariamente degli oneri generali di sistema”.
Quella dell’Autorità è però un’interpretazione che ci permettiamo di questionare. Disegnando il sistema, il Decreto Bersani stabilì infatti che “per l’accesso e l’uso della rete di trasmissione nazionale è dovuto al gestore un corrispettivo” la cui misura “è determinata dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas […] considerando anche gli oneri connessi ai compiti previsti al comma 12”. Gli oneri in questione sono quelli connessi al ritiro dell’energia incentivata (al tempo principalmente da impianti CIP6), la cui copertura era quindi concepita come parte integrante del corrispettivo per l’accesso e l’uso della rete. Il Testo Integrato di Trasmissione e Distribuzione, che regola le modalità di raccolta e liquidazione degli oneri di sistema, li definisce tuttora “componenti tariffarie per l’adeguamento dei corrispettivi per il servizio di distribuzione destinate alla copertura degli oneri generali afferenti al sistema elettrico”. Le componenti tariffarie incidono quindi sui corrispettivi per il servizio di distribuzione, di cui diventano parte. La tesi dell’Autorità che gli oneri sostenuti per l’utilizzo della rete siano solo quelli a remunerazione dell’infrastruttura e servizi di rete, e non anche gli oneri di sistema, è insomma discutibile.
In conclusione, la limitazione dei benefici associati allo scambio sul posto appare una forzatura delle prerogative dell’Autorità, basata su un’interpretazione discutibile del mandato legislativo. Purtroppo non sarebbe la prima, ed è facile prevedere che ancora una volta l’ultima parola spetterà al giudice amministrativo.