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Il nodo incentivi

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Giovan Battista Zorzoli, presidente di ISES Italia entra nel merito del dibattito sugli incentivi alle rinnovabili

Fonte: energiaspiegata.it

Autore: G.B.Zorzoli

Nella segnalazione dell’AEEG al Governo, in merito allo schema di decreto legislativo in attuazione della Direttiva europea sulle rinnovabili, si ribadisce quanto “l’utilizzo delle tariffe dell’energia elettrica (e del gas), al fine di incentivare lo sviluppo e l’utilizzo di specifiche tecnologie di produzione energetica, sia impropria, non equa…
In effetti le scelte di politica energetica-industriale-ambientale, (ad esempio lo sviluppo di una particolare filiera delle rinnovabili) dovrebbero trovare la loro più corretta copertura di spesa nell’ambito della fiscalità (al pari di qualunque altro costo socializzato)”.
La segnalazione dell’Autorità porta la data del 14 gennaio. Poco più di due settimane dopo, il 31 gennaio, il suo suggerimento su come incentivare le rinnovabili viene nettamente contraddetto dalla Comunicazione della Commissione europea intitolata “Renewable Energy: Progressing towards the 2020 target”, dove – nel quadro dei suggerimenti per garantire il conseguimento degli obiettivi al 2020 – a proposito dei costi delle incentivazioni testualmente si afferma che “è essenziale che tali costi siano «fuori bilancio», cioè sopportati dai consumatori di energia piuttosto che dalla fiscalità … in modo da evitare le tipiche interruzioni «stop-start» ogni qual volta i bilanci degli stati diventano più vincolati”. Affermazione meditata, che discende dall’analisi di quanto è avvenuto nei singoli stati membri, contenuta nel working paper “Review of European and National financincg of renewable energy”, allegato alla Comunicazione.
Si tratta insomma di una constatazione così evidente che è strano non sia venuta in mente all’Autorità per l’energia, tanto più che l’indebitamento pubblico italiano è fra i maggiori a livello europeo, come confermano le traversie delle varie leggi finanziarie, che di conseguenza ogni anno mettono a rischio la defiscalizzazione del 55% per gli interventi di riqualificazione energetica degli edifici (e nel 2010 ne hanno modificato in peggio le modalità). Veramente stupisce che Ortis e Fanelli, da sempre positivamente a sostegno dell’efficienza energetica, nel suggerire per gli incentivi il ricorso alla fiscalità non abbiano tenuto presente questo clamoroso caso negativo.
D’altronde che l’opzione fiscale decreterebbe la morte delle rinnovabili, me l’ha confermato la risposta a questa obiezione da parte del top manager di un’importante azienda energetica, tanto simpatico e franco quanto ostile alle energie verdi: “è proprio quello che voglio”.
Scelta obbligata, dunque, se non si vuole ostacolare e al limite impedire lo sviluppo delle rinnovabili, ma comunque iniqua, come sostiene l’Autorità per l’energia? Anche qui la risposta viene da Bruxelles. Spostare gli incentivi per le rinnovabili sulla fiscalità generale non rispetterebbe il criterio di equità stabilito dall’Unione Europea: l’inquinatore deve pagare in proporzione al danno che provoca. Poiché consumando energia contribuiamo alle emissioni di CO2, è equo che l’onere per il processo innovativo di tecnologie (le rinnovabili) in grado di ridurle, sia caricato sulla bolletta in misura proporzionale all’energia utilizzata. Per compensare le condizioni sociali più sfavorite esiste già il bonus elettrico, che l’Autorità per l’energia amministra con solerzia; si tratta semmai di ampliarne la portata.
Non a caso l’unica critica possibile a questa conclusione è venuta da una mail che ho ricevuto da un lettore tendenzialmente negazionista, secondo il quale il principio "chi inquina paga" «sembra davvero una "forzatura", prima di tutto perché vorrebbe dire dare per assodato (e così non è) che la CO2 sia un "inquinante" e che la stessa sia la causa primaria e forzante dei "cambiamenti climatici" che, come sappiamo, ci sono sempre stati e continueranno ad esserci anche in futuro, a prescindere dai livelli di CO2 nell’atmosfera». Non mi risulta però che l’Autorità condivida questo punto di vista.
Alla radice di posizioni che, disgraziatamente, non sono solo dell’Autorità, si ritrova un’incomprensione di fondo sulla funzione degli attuali incentivi alle rinnovabili, ben sintetizzata nelle reiterate proposte di non buttare via tanti soldi in tecnologie ancora troppo care, destinandone una parte a finanziare ricerche che portino a soluzioni meno dispendiose. A costo di ripetermi, ricordo per l’ennesima volta che quando un prodotto è il risultato di un’innovazione realmente radicale, il costo per trasformare i risultati della ricerca scientifica in produzioni industriali competitive è di almeno due ordini di grandezza superiore agli investimenti in R&S. Raramente un’impresa è disposta a sopportarli, visti i rischi che ciò comporta. La grande fioritura dopo la seconda guerra mondiale di prodotti radicalmente innovativi è stata infatti resa possibile dai massicci investimenti nei programmi militari e spaziali. Per restare nel settore energetico, la domanda di prestazioni sempre più spinte per i jet militari ha finanziato lo sviluppo industriale di turbogas in grado di funzionare in modo affidabile a temperature di 1300-1400 °C. Senza questo sforzo finanziario l’industria non sarebbe stata in grado con molto più modeste innovazioni incrementali (alla sua portata) di sviluppare in proprio e mettere sul mercato le macchine che hanno consentito lo straordinario successo delle centrali a cicli combinati. Il caso del nucleare è talmente evidente da non richiedere ulteriori commenti.
Poiché una tecnologia radicalmente innovativa come l’eolica non interessa il settore militare o spaziale, mentre le applicazioni del fotovoltaico nei satelliti hanno riguardato tecnologie come l’arseniuro di gallio di non immediato utilizzo in campo civile, dove a dominare sono le celle a base di silicio, occorrono quindi incentivi per finanziarne in modo adeguato e per il tempo necessario il processo innovativo su scala industriale. Se appropriati (cioè né troppo alti, né troppo bassi), sono un investimento, non uno spreco di denaro.
Per questo motivo non sta in piedi nemmeno la soluzione di compromesso proposta dall’Autorità. Se proprio non se ne può fare a meno per via di quei rompiscatole di Bruxelles, “sarebbe al più legittimo attribuire al consumatore elettrico solo una parte del costo determinato da questa scelta UE … al massimo dovrebbe essere spesato sulla bolletta energetica degli italiani solo il paniere di fonti meno costose … qualunque altra fonte, più onerosa, che si ritenga di voler incentivare (per i più vari e validi motivi) dovrebbe invece essere posta a carico della fiscalità generale”. Così una tecnologia come il fotovoltaico, per ora più lontana di altre dalla competitività, ma con un eccezionale trend discendente dei costi, sarebbe mandata a morire nella palude della fiscalità generale.
Insomma, una proposta di compromesso cui ben s’attaglia un detto che a un veneto come Ortis suonerà familiare: “xè peso el tacon del buso” (la toppa è peggio del buco).
Concludo con i Certificati Verdi. Secondo l’Autorità non funzionano più per “un eccesso di interventi …, che han finito per snaturarne i principi e danneggiarne la funzionalità”, mentre è il meccanismo ad essere risultato alla lunga meno adeguato di altri. Sul perché, troppo complesso da spiegare in poche righe, suggerisco a Ortis e Fanelli di fare un’approfondita chiacchierata col prof. De Paoli dello IEFE, che sul tema ha svolto una lectio magistralis ad un workshop organizzato recentemente dalla Staffetta Quotidiana. La prevista sostituzione dei CV con una tariffa è in realtà temuta dall’Autorità in quanto provocherà lo “spostamento del relativo onere dai produttori al conto A3, vale a dire in bolletta, producendo così un ulteriore costo per il sistema, da quantificare e valutare attentamente”.
Qui veramente trasecolo. L’ottobre scorso, durante un’audizione presso la X Commissione del Senato, il presidente Ortis, parlando degli incentivi alle rinnovabili, aveva previsto un loro costo per il 2010 pari a 3,4 miliardi di euro, “di cui 800 milioni legati alle rinnovabili CIP6, 1600 ai certificati verdi, 800 al fotovoltaico e 180 alla tariffa fissa onnicomprensiva”: anche quello dei CV è dunque un costo che i produttori trasferiscono sul prezzo di vendita dell’energia, per cui il passaggio alla tariffa sposterebbe semplicemente l’onere da una voce della bolletta a un’altra. Questa interpretazione trova peraltro conferma in molti altri interventi di Ortis e dei suoi collaboratori. A titolo di esempio, la tabella seguente è stata presentata il 15 aprile 2010 dal responsabile dell’Unità Fonti rinnovabili, produzione di energia e impatto ambientale nell’ambito della Direzione Mercati dell’Autorità per l’energia, M. Pezzaglia, al Centro studi per le fonti rinnovabili APER-Reef, per illustrare l’onere sui consumatori del previsto sviluppo delle rinnovabili.
 
Come si vede, il costo derivante dai CV viene tranquillamente (ragionevolmente) sommato agli altri già oggi inseriti fra gli oneri di sistema.
Stando così le cose, auguriamoci che il buon impianto dello schema di decreto legislativo attualmente all’esame del Parlamento venga migliorato in alcune parti (riguardanti soprattutto l’eolico e il fotovoltaico) senza però tenere conto di quelle, fra le osservazioni dell’Autorità, qui discusse.
Per il futuro energetico-ambientale del paese siamo infatti a un crocevia cruciale, e “nella vita delle nazioni di solito l’errore di non saper cogliere l’attimo fuggente è irreparabile”. Monito che Sandro Ortis dovrebbe sapere a memoria, visto che è di Luigi Einaudi.