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Il grande caldo

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Il cambiamento climatico è più veloce del previsto: si rischia un innalzamento della temperatura di 7 gradi. A Doha vertice mondiale per fermare la catastrofe

Fonte: La Repubblica

Autore: ANTONIO CIANCIULLO

A36 giorni dalla morte ufficiale del protocollo di Kyoto, scatta il piano per il salvataggio d’emergenza. Oggi i rappresentanti di 190 Paesi si riuniscono a Doha, in Qatar, per la conferenza sul clima che rappresenta l’ultima possibilità di tenere in vita il meccanismo varato 15 anni fa tra grandi speranze. Nel 1997 i Paesi industrializzati, i primi ad aprire l’era del carbone, decisero di essere i primi a iniziare a disintossicarsi dalla dipendenza dai combustibili fossili. L’obiettivo era chiudere la fabbrica delle catastrofi, fermare la crescita dei gas serra che minacciano la stabilità del clima. Allora a molti sembrava una scommessa dai vantaggi proiettati in un periodo lontano, un atto lungimirante per salvare le future generazioni.
Oggi si scopre che il cambiamento climatico ha corso più rapido delle previsioni e la politica si è mossa più lenta delle promesse. Il risultato di questa doppia velocità è che a rischio non sono lontani pronipoti ma gli attuali abitanti di New York che devono scappare inseguiti da uragani mutanti, i profughi ambientali che premono sui confini europei fuggendo dal Sahara che avanza, gli abitanti delle piccole isole che iniziano a essere sommerse dagli oceani, gli italiani bersagliati da piogge che si trasformano in bombe d’acqua.
Le cronache suggeriscono l’urgenza di una riconversione del sistema produttivo, il passaggio a un’economia basata sull’efficienza, sull’innovazione tecnologica, sulle fonti rinnovabili, sul recupero dei materiali. Ma di questo pacchetto di interventi, che doveva rappresentare il cuore del rilancio del protocollo di Kyoto, della seconda fase da inaugurare subito dopo il periodo di impegni chiuso al 31 dicembre 2012, non c’è traccia. Il primo accordo in vista, quello che dovrebbe includere anche i Paesi di nuova industrializzazione esclusi dall’intesa del 1997, sarà definito entro il 2015 e avrà come orizzonte operativo il 2020.
Ma se il protocollo di Kyoto verrà lasciato morire invece di fare da ponte per arrivare al 2020, il percorso diventerà in salita. E sarà una salita molto dura. «La settimana scorsa ero a New York come volontario per dare scarpe e camicie agli sfollati, a chi aveva dovuto lasciare la casa allagata da Sandy: mi sembrava di essere tornato alla mia Torino del dopoguerra, quando si distribuivano razioni di cibo in mezzo alle macerie», racconta Vittorio Canuto, il climatologo del Goddard Institute della Nasa oggi a Venezia per il convegno sui cambiamenti climatici organizzato dal ministero dell’Ambiente. «La verità è che il clima ci sta scappando di mano: è governato da ecosistemi complessi che hanno tempi di reazione molto lunghi. Non esiste un interruttore per disinnescare il pericolo con un clic. Anche se chiudessimo oggi il rubinetto delle emissioni serra, l’anidride carbonica già emessa provocherebbe comunque un aumento di almeno 1 o 2 gradi. E non lo stiamo chiudendo».
Anzi, quel rubinetto di catastrofi è sempre più aperto. Neanche la crisi economica è riuscita a rallentare le emissioni serra: nel 2011 sono aumentate del 3 per cento arrivando al record di 34 miliardi di tonnellate annue di CO2. Il livello di anidride carbonica in atmosfera nell’ottobre 2012 ha raggiunto le 391 parti per milione di volume: era di 316 nel 1959, il primo anno in cui si organizzò una raccolta di dati durata per l’intero anno. Rispetto all’era preindustriale la concentrazione di CO2 è aumentata del 40 per cento e continua a crescere a ritmo sempre più veloce: oltre 2 parti per milione all’anno.
Secondo l’Unep, il Programma ambiente delle Nazioni Unite, le emissioni serra sono già circa il 14 per cento sopra il livello massimo che dovrebbero raggiungere al 2020 se si vuole mantenere la febbre del pianeta entro i due gradi, la soglia oltre la quale il danno può diventare drammatico. E i dati che arrivano dai laboratori di tutto il mondo confermano l’allarme: l’estensione dei ghiacci artici si è dimezzata dal 1980; i ghiacciai della Groenlandia hanno visto raddoppiare la velocità di fusione dagli anni Novanta e quelli alpini hanno perso due terzi del volume dal 1850.
«L’effetto serra non naturale, quello indotto bruciando combustibili fossili e deforestando, continua ad aumentare in maniera progressiva», denuncia Maria Grazia Midulla, responsabile clima del Wwf. «Purtroppo i segnali di correzione arrivati finora sono del tutto insufficienti. Se ci basassimo solo sugli impegni volontari assunti dai governi la temperatura del pianeta salirebbe di 5 gradi».
Anche dal vertice scientifico dell’Unione europea arriva la richiesta di un cambio di rotta. Il rapporto appena pubblicato dall’Agenzia europea per l’ambiente stila la classifica dei maggiori produttori di CO2 nel 2011 registrando l’aumento della pressione che viene dai Paesi di nuova industrializzazione: al primo posto troviamo la Cina con il 29 per cento delle emissioni (quelle pro capite erano 2,2 tonnellate nel 1990, ora sono 7,2 tonnellate); secondi gli Stati Uniti con il 16 per cento; poi l’Unione europea con l’11 per cento, l’India con il 6, la Russia con il 5 e il Giappone con il 4.
«Non solo le emissioni crescono ma gli effetti del cambiamento climatico stanno diventando sempre più evidenti: con loro aumentano i danni per la salute e per la stabilità dell’economia », ha dichiarato Jacqueline McGlade, la biologa che dirige l’Agenzia europea per l’ambiente. «Per reagire in maniera efficace occorre da una parte ridurre le emissioni serra e dall’altra prepararci a fronteggiare l’esasperazione dei fenomeni meteo: alluvioni, frane, piogge estreme saranno all’ordine del giorno».
Se sulla diagnosi l’accordo è ormai ampio, sugli strumenti la disputa cresce. Uno studio dell’università East Anglia e del Tyndall Centre for Climate Change Research pubblicata sul numero del 19 ottobre della rivista
Nature Climate Change ha criticato con asprezza il sistema negoziale dell’Onu basato sulla regola del consenso universale che di fatto blocca decisioni efficaci, e su una burocrazia sempre più pesante. Dai 757 delegati nella conferenza sul clima di Bonn del 1995 si è arrivati a 10.591 in quella fallita a Copenaghen nel 2009. E inoltre, ricordano gli autori dello studio, adesso nelle delegazioni ci sono molti meno esperti dei problemi da affrontare e molti più politici.
Se i vertici Onu non riescono a decidere, una risposta arriva sommando gli interventi dal basso: migliaia di città hanno deciso di adottare spontaneamente obiettivi più severi di riduzione delle emissioni serra; negli Stati Uniti 4 dei 5 candidati repubblicani che avevano fatto campagna elettorale negando l’esistenza del cambiamento climatico non sono stati eletti; un numero crescente di aziende preme per avere una certezza del diritto in campo ambientale in modo da programmare meglio l’innovazione tecnologica a medio e lungo termine aumentando la competitività. E un segnale forte arriva anche da un settore determinante per la partita climatica: quello energetico. Le emissioni di anidride carbonica da combustibili fossili tra il 1990 e il 2010 sono aumentate del 49 per cento. Ma ora l’avanzata dell’energia pulita sembra inarrestabile. «Fra 3 anni le fonti rinnovabili, che crescono al ritmo del 6 per cento annuo, daranno un contributo globale superiore a quello del gas», ricorda Paolo Frankl, responsabile del settore fonti rinnovabili della Iea, l’International Energy Agency. «Il cambiamento è particolarmente evidente in Cina: nei prossimi 5 anni Pechino produrrà una quantità di energia da fonti rinnovabili pari al doppio del consumo energetico annuale di tutta l’Italia».