L’Università ha organizzato un workshop nella Capitale, spiegando le potenzialità di questa fonte rinnovabile per la transizione energetica italiana
L’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” – la più antica della Capitale nonché la più grande d’Europa – ha organizzato il workshop La geotermia per la transizione ecologica.
Un appuntamento di natura scientifica che, nell’aula magna del dipartimento di Scienze della Terra, ha fatto il punto su quali sono le risposte che hanno oggi da offrire la ricerca e le best practice maturate a livello internazionale attorno ad un quesito fondamentale: la geotermia può rappresentare una risorsa decisiva per garantire al nostro Paese un approvvigionamento di energia sicuro e sostenibile?
Il primo dato messo in evidenza è che l’Italia, rispetto ad altri Stati che pure stanno investendo molto nel settore – ad esempio nell’Europa del nord –, ha condizioni assolutamente favorevoli per lo sviluppo della geotermia: come ricordato da Roberto Gambini del Geological Engineering Network (GEN), si parla di poter installare nuovi impianti per un minimo di +1,1-1,6 GWe (la stima fornita dall’Unione Geotermica Italiana, particolarmente conservativa) fino a +28 GWe (stima del progetto europeo GeoElec), passando per i +6,5 GWe realizzabili nella sola area tirrenica che spazia tra la Toscana geotermica e Napoli (stima Gen).
Una fortuna per la quale non abbiamo meriti, dettata semplicemente dalle condizioni geologiche e di temperatura presenti lungo lo Stivale; basti pensare ad esempio che, nel sottosuolo di Larderello, a -2.900 di profondità ci sono oltre 519°C.
Una situazione che lascia spazio a varie soluzioni tecnologiche (centrali flash, direct stream o binarie) a seconda della temperatura e della concentrazione di gas incondensabili presenti nei fluidi geotermici da coltivare, abbinando alla produzione di elettricità gli usi diretti del calore a fini civili e/o produttivi.
Non solo: le più recenti ricerche dell’IGG-CNR confermano che i sistemi geotermici italiani sono anche ricchi di litio, una materia prima critica – e sempre più preziosa – indispensabile per costruire le batterie necessarie alla transizione energetica.
Se questi sono i vantaggi che la geotermia potrebbe garantire in termini di sviluppo sostenibile al Paese, sull’altro piatto della bilancia vanno soppesate le emissioni geotermiche in atmosfera. In altre parole occorre capire se quelle in uscita dalle centrali sono sostitutive o meno di emissioni naturali.
Il caso di Larderello, dove in 200 anni di tempo l’impiego industriale della geotermia ha modificato il territorio portando alla scomparsa delle manifestazioni naturali (lagoni e fumarole) sembra supportare questa tesi, come dimostrato scientificamente dal progetto di ricerca Deep Carbon.
Altrove questo fenomeno è invisibile all’occhio, ma anche se non li vediamo ci sono veri e propri fiumi di CO2 – un gas incolore e inodore – che possono emergere dal sottosuolo delle aree geotermiche.
Come spiegato dalla ricercatrice Monia Procesi (INGV), il degassamento naturale di CO2 e metano è molto diffuso globalmente, e mostra un’elevata correlazione sia con la distribuzione dei vulcani sia con quella delle aree con flussi termici elevati: non è un caso che gli impianti geotermici toscani si trovino proprio in queste zone: un’area geotermica emette quindi naturalmente CO2 e in minore quantità anche CH4.
Per tutta l’Italia centrale – e in particolare per le arre che comprendono Toscana, Lazio settentrionale e porzioni di Umbria e Abruzzo, oltre al settore tirrenico della Campania – si stima un degassamento naturale di CO2 pari ad almeno 9,2 mln di ton/anno, cui si aggiunge un minimo di 11.500 ton/anno di metano.
Un contesto in cui ricade in pieno anche l’area geotermica dell’Amiata, anch’essa al centro del progetto di ricerca Deep Carbon.
Attingendo alle evidenze scientifiche maturate in quest’ambito, Alessandro Sbrana (Università di Pisa) ha documentato che pure in quest’area la CO2 profonda risalirebbe comunque dal sottosuolo, raggiungendo la superficie, anche in assenza delle centrali geotermoelettriche: questo implica che anche sull’Amiata la produzione geotermoelettrica avviene a zero emissioni di CO2, in quanto sostitutive di quelle naturali. Nel merito è stato riportato l’esempio delle aree geotermiche di Bagnore e Piancastagnaio – con centrali attive –, dove il flusso di gas dal suolo è molto ridotto circa dimezzato rispetto alle aree di Bagni San Filippo e Val di Paglia, dove ad oggi non ci sono centrali.
Sotto questo profilo, i dati accumulati dallo studio Deep Carbon parlano chiaro: l’emissione totale di CO2 dall’Amiata è stimata in 17.934 tonnellate al giorno, mentre quella rilasciata dalle centrali geotermiche è pari a 1.418 t/g (Arpat, 2018): quindi le emissioni dalle centrali sono solo il 7,9% delle emissioni naturali, e anche questa frazione sarebbe comunque stata rilasciata naturalmente dal sottosuolo.
Anzi: grazie alla coltivazione geotermica, i fluidi che alimentano le centrali conterranno sempre meno CO2, contribuendo ulteriormente a frenare la crisi climatica.
Come sottolineato da Sbrana, la pratica delle re-iniezione di fluidi acquosi degassati (condense di vapore) nei serbatoi geotermici, che rende pienamente sostenibile e rinnovabile la geotermia, nel tempo riduce ulteriormente l’emissione di CO2 in atmosfera, diluendo i gas presenti nei serbatoi idrotermali.
Le presentazioni dei ricercatori intervenuti al workshop, e prossimamente la registrazione integrale dell’evento, sono disponibili qui: