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Geoenvi, come rispondere alle preoccupazioni ambientali sulla geotermia? La parola a Daniele Fiaschi

Intervista a Daniele Fiaschi, docente di Energie Rinnovabili e Sistemi Energetici all'Università degli Studi di Firenze

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Intervista a Daniele Fiaschi, docente di Energie Rinnovabili e Sistemi Energetici all’Università degli Studi di Firenze


Quali sono i reali impatti ambientali legati all’impiego della geotermia – con le varie tecnologie disponibili – come fonte rinnovabile utile per produrre l’energia di cui tutti abbiamo bisogno?

Per sgombrare il campo dagli equivoci e rispondere con solidi dati scientifici è nato il progetto europeo GEOENVI (Tackling the environmental concerns for deploying geothermal energy in Europe), condotto da 16 partner internazionali e finanziato attraverso il programma UE Horizon2020.

La prima occasione di confronto pubblico sul tema si è tenuta proprio in Italia – Paese che mantiene ancora una leadership di settore e che ha visto nascere le prime tecnologie geotermiche oltre 200 anni –, con un dibattito organizzato a Roma da CNR, CoSviG, CSGI, EGEC, Enel Green Power e Rete Geotermica; per approfondire i contenuti emersi durante il dibattito seguendo i criteri di equità e imparzialità, GeotermiaNews ha posto a tutti i relatori intervenuti a Roma 5 quesiti, incentrati su alcuni dei principali temi volti a individuare la strada migliore per uno sviluppo sostenibile del comparto geotermico, a favore della collettività.


Diamo oggi la parola a Daniele Fiaschi, docente di Energie Rinnovabili e Sistemi Energetici all’Università degli Studi di Firenze


Il progetto Horizon 2020 GEOENVI ha tra i principali obiettivi lo sviluppo di una metodologia per la valutazione degli impatti ambientali, considerando tutte le fasi di vita di un impianto geotermico.

Quali aspetti crede debbano essere approfonditi, al fine di poter effettuare una efficace comparazione tra gli impatti generati dalle differenti tecnologie utilizzabili per la produzione di energia?

«Da diversi anni, sia in ambito sociale che di ricerca, l’idea di valutare l’impatto ambientale globale dei sistemi energetici, dalla loro costruzione, passando per la vita operativa fino alla dismissione, ha generato l’esplosione di una metodologia valutativa che è addirittura da tempo entrata nelle certificazioni ISO: si tratta della LCA (Life Cycle Assessment) o analisi del ciclo di vita dei più svariati sistemi produttivi e relativi prodotti che generano utilità più o meno importanti per gli esseri umani e non solo. I risultati sono molto ambiziosi oltre che suggestivi, riuscendo a fornire in maniera sintetica e a volte d’immediata comprensione parametri quali le emissioni di CO2, l’utilizzo di risorse fossili deperibili, l’effetto sulla salute umana e degli ecosistemi ecc. per unità di prodotto (che per esempio, parlando di energia, può essere il kWh elettrico).

Ecco, la LCA è sicuramente uno strumento, riconosciuto dalle comunità scientifiche internazionali, che consente una comparazione abbastanza completa e a 360 gradi delle diverse possibili tecnologie energetiche, fornendo indicatori quantitativi d’impatto che vanno dalle emissioni alla salute umana, al consumo di risorse primarie nelle tre fasi fondamentali che accompagnano i sistemi energetici dalla culla alla tomba (from cradle to grave). Tuttavia, pur essendo una metodologia ormai consolidata e addirittura normata, ha ancora diversi vuoti, a rifarsi dalle modalità valutative di certi impatti emissivi fino alle specificità territoriali di medesime tecnologie, che lasciano aperti punti interrogativi anche alla ricerca. Per esempio, riferendosi strettamente alla geotermia, non sono definiti i percorsi d’impatto di due degli inquinanti più critici e discussi delle centrali geotermiche, specialmente in certe aree: l’acido solfidrico e il mercurio. Riempire alcuni di questi vuoti è uno degli obiettivi del progetto GEOENVI, tra i cui task c’è la definizione di linee guida armonizzate per la valutazione degli impatti ambientali della geotermia, sulla cui base sarà portato anche avanti il confronto rispetto all’utilizzo di altre fonti energetiche rinnovabili. In sintesi credo che, pur con le incertezze presenti in ogni sistema valutativo e tenendo bene a mente che non esiste tecnologia energetica che non abbia impatto a parte il risparmio, la LCA armonizzata sia una delle metodologie più efficaci per comparare differenti modi di produrre la medesima utilità (kWh elettrico, termico o frigorifero o in combinazione mediante co e tri generazione, altresì detti unità funzionali). Ad esempio: assunto che non si produce energia utile senza impatto, per produrre 1 kWh elettrico e/o termico con la geotermia che quantità (e che tipo) di inquinanti immetto in ambiente a fronte di quanti e quali inquinanti e risorse (fossili e non solo) risparmio? E con altre tecnologie? Questa dev’essere l’impostazione, necessariamente basata su approcci scientifici, per il confronto tra le varie tecnologie energetiche, rinnovabili e non.

All’interno del progetto GEOENVI ci si spinge anche oltre, in particolare per valutare l’efficacia ambientale delle tecnologie impiantistiche di conversione energetica e dei loro componenti: si utilizzano i dati provenienti dalla LCA per assegnare ecopunti d’impatto ai sistemi energetici mediante l’introduzione dell’analisi exergoambientale. Questa, considerando i flussi energetici e materiali che attraversano gli impianti di conversione, è in grado di determinare l’impatto energetico e ambientale di ogni singolo componente, indicandone la strada per ridurlo attraverso specifici parametri fisici progettuali e d’esercizio. Si tratta chiaramente di una metodologia che, affiancata alla LCA, consente di individuare e confrontare i punti deboli e forti dei singoli componenti che caratterizzano diverse tecnologie energetiche».

Uno dei principali elementi di criticità, attorno al quale si sta sviluppando un intenso dibattito, riguarda le emissioni di CO2: le centrali geotermoelettriche tradizionali rilasciano anidride carbonica in atmosfera, benché di origine naturale, ma la lotta contro i cambiamenti climatici impone sin da subito una revisione delle priorità in agenda per determinare la decarbonizzazione dell’economia. Quali pensa siano le migliori soluzioni disponibili per affrontare il problema?

«Quello delle emissioni di CO2 è probabilmente una delle macchie caratteristiche dell’energia geotermica rispetto alle altre energie rinnovabili, almeno durante il funzionamento. Vanno però precisati un paio di aspetti:

Le emissioni di CO2 sono specificità locali, legate al contenuto di questo gas (in Toscana piuttosto rilevante, arrivando a raggiungere l’8 – 9% in massa) nel fluido geotermico come incondensabile, che viene rimosso dagli impianti inviandolo direttamente in atmosfera. Fluidi di altri territori geotermici hanno contenuti di CO2 sensibilmente inferiori; il rilevante tenore di CO2 nei fluidi geotermici rende le centrali toscane, anche al netto dei rilasci naturali, emettitrici di questo gas in quantità paragonabile, anche se sensibilmente inferiore, a quello di impianti termoelettrici molto efficienti a gas naturale. A differenza dei combustibili fossili, l’emissione è naturale e sarebbe comunque rilasciata dal sito. Il problema è la velocità di rilascio, generalmente superiore rispetto a quella naturale quando si va ad installare una centrale, ad esempio da 20 MW, che elabora portate dell’ordine di 100 ton/ora di geofluido. Da non dimenticare è anche un certo effetto tampone operato dalle centrali sulle emissioni naturali.

Comunque, l’incidenza della produzione geotermoelettrica nel panorama toscano e nazionale consente di affermare, dati alla mano, che il bilancio di emissioni di CO2 evitate dal mancato utilizzo di combustibili fossili per generare l’equivalente quantità di energia elettrica è sicuramente favorevole: anche includendo le emissioni naturali, a livello nazionale si risparmiano più di 70 kg per MWh di elettricità prodotta.

Dato che comunque, come osservato sopra, nell’attuale panorama energetico italiano la geotermia ha un bilancio globalmente positivo nella riduzione delle emissioni di diverse specie inquinanti in atmosfera, con le tecnologie che caratterizzano le attuali centrali si potrebbe ulteriormente contribuire alla riduzione delle emissioni di gas serra incrementando gli utilizzi termici (cogenerativi e/o trigenerativi considerando la possibile produzione di freddo) della risorsa. Ad oggi la geotermia nazionale si caratterizza fortemente come produttrice di energia elettrica e solo marginalmente di calore: quasi 900 MW di potenzialità elettrica contro 33 termici. Questi ultimi contribuiscono alla compensazione di un equivalente potenziale termico generato con altra risorsa fossile, ad esempio il gas naturale, per una quota che raggiunge a fatica il 3% delle emissioni da geotermia. Decidendo di investire sugli usi termici connessi alla cogenerazione (con possibili ricadute occupazionali, raggiungendo anche aree urbane di maggiori dimensioni attualmente lontane dalle centrali), per dare qualche indicazione quantitativa si potrebbe prendere ad esempio a riferimento il DM AEEG 42/02 e la Direttiva Europea sulla cogenerazione, che prevedono per impianti cogenerativi un Limite Termico (LT) maggiore del 15%, ovvero una produzione di calore utile pari almeno al 15% su base annua rispetto alla produzione totale di energia elettrica più calore. Considerando gli attuali quasi 900 MW geotermoelettrici installati, soddisfare quel 15% di limite termico significherebbe potenziare gli usi termici a recupero portandoli a circa 200 MW (sei volte il livello attuale), col che si avrebbe una compensazione delle emissioni naturali di CO2 di circa il 17,5%.

Ovviamente si tratterebbe di un traguardo impegnativo, che richiederebbe un grosso sforzo di adeguamento agli impianti esistenti ed un piano per investimenti produttivi nelle aree geotermiche: nuovi insediamenti industriali energivori, ad esempio tessile, florovivaistico (questo peraltro già presente nell’area amiatina), agroalimentare, trasformazione di legnami ecc. e adeguamenti infrastrutturali, a partire dal forte potenziamento delle reti di teleriscaldamento. Per risultare praticabile, l’operazione andrebbe graduata negli anni, ponendo obiettivi progressivi per di soddisfacimento del limite termico. Il tutto ovviamente avrebbe anche, come sopra accennato, significative ricadute occupazionali in aree particolarmente critiche e quindi bisognose sotto questo aspetto. È evidente che una tale iniziativa, per avere successo, non potrebbe prescindere da un adeguato supporto a livello politico e amministrativo.

Parlando invece di soluzioni alternative, le più promettenti nel breve – medio termine sono sicuramente gli impianti a totale reiniezione dei gas incondensabili, basati sulla tecnologia binaria: si utilizza solamente il calore della risorsa geotermica, che non viene “mandata in macchina” (a differenza delle centrali tradizionali) ma semplicemente raffreddata e/o condensata, cedendone il calore ad un impianto di potenza che utilizza particolari fluidi organici del tipo di quelli frigoriferi (Organic Rankine Cycle, ORC) in maniera chiusa e totalmente separata dal geofluido. Il quale, dopo aver fornito il proprio calore all’impianto termoelettrico, viene reimmesso completamente nei pozzi di reiniezione, evitandone totalmente il contatto con l’ambiente. In presenza di notevoli quantità di gas incondensabili come nelle aree geotermiche toscane, questa operazione pone una grossa sfida, ovvero quella di rendere stabili questi gas disciolti nel liquido reiniettato, senza che si abbiano in seguito fuoriuscite. È questo l’obiettivo di un altro progetto H2020 (GECO, 2018 – 2022), in cui siamo coinvolti come Dipartimento di Ingegneria Industriale dell’Università di Firenze, che dovrà dimostrare prima con strumenti di calcolo avanzati e poi con installazione pilota nell’area geotermica di Larderello, l’affidabilità delle tecnologie proposte per la reiniezione totale del fluido geotermico e dei relativi gas incondensabili (CO2 ma anche inquinanti più critici tipo l’acido solfidrico e altri, oggetto di rilevante attenzione). Impianti di questo tipo non avrebbero alcun impatto ambientale e si proporrebbero come portatori di crediti emissivi di CO2, in quanto a bilancio negativo. Sarebbero inoltre proposti in soluzione cogenerativa, con ciclo termodinamico ottimizzato per i recuperi di calore anche dalle operazioni di ricompressione, necessarie per la reiniezione dei gas incondensabili a profondità superiori ai seicento metri».

Quali sono in Italia e in Toscana, regione leader a livello europeo per quanto riguarda l’utilizzo della geotermia, i principali strumenti politici per promuovere l’adozione delle migliori tecnologie disponibili, nonché di buone pratiche, che consentano una minimizzazione degli impatti? Ritiene possano essere integrati da ulteriori misure?

«Le Linee guida ministeriali sulla geotermia sono stringenti, anche nel contesto europeo, sul quale ci stiamo confrontando proprio in GEOENVI: regolamentano l’esercizio delle concessioni, i permessi autorizzativi e i rischi connessi. Leggi e linee guida esistono e sono sostanzialmente rispettate nelle procedure applicative di Valutazione d’Impatto Ambientale (VIA). Proprio confrontandoci con i partner europei nei due progetti (GEOENVI e GECO), viene fuori un quadro, almeno fino ad oggi, in cui l’Italia è sostanzialmente l’unico paese a praticare l’abbattimento sistematico delle emissioni di acido solfidrico e mercurio mediante gli impianti AMIS, ormai presenti in tutte le centrali. Certo si può fare di più e di meglio, ed è in questa direzione che spingono i due progetti menzionati, ma sicuramente le centrali italiane sono avanti in questo senso.

L’aspetto più importante è differenziare tra concessioni (attualmente per circa 1000 MW, impianti “tradizionali”) e permessi di ricerca (impianti “innovativi”, tre o quattro al massimo da 5 MW del tipo di quelli menzionati al punto precedente). Gli impianti sperimentali sono autorizzati dal Ministero dello Sviluppo/Risorse e comunque soggetti al rispetto delle stringenti linee Guida e della procedura di VIA con competenze regionali. Il punto è evitare un garbuglio di competenze: gli impianti sperimentali, destinati a condizioni difficili della risorsa, sono già autorizzati (in misura appunto molto limitata) dal Ministero, in deroga alle normali concessioni. Non pare giusto assoggettarli ad ulteriori obblighi, trattandosi di tecnologie non consolidate, che dipendono anche dalle condizioni locali delle risorse geotermiche. Ad esempio, volendo testarle sui due siti geotermici toscani principali, sappiamo che sull’Amiata la tecnologia a flash, che rilascia CO2 ed inquinanti, volendo può essere evitata mantenendo la risorsa come acqua pressurizzata; a Larderello invece il flash avviene dentro al pozzo o addirittura nel serbatoio e pertanto non può essere evitato; sono quindi diverse le soluzioni tecniche da adottare per l’eventuale reiniezione della CO2.

In generale, non ha molto senso mettere in partenza limitazioni (a parte quelle ovvie legate a questioni di sicurezza) ad impianti sperimentali e dimostrativi di piccola taglia. La decisione di una regolamentazione più vincolante dovrebbe essere rinviata a quando la nuova tecnologia si fosse affermata a livelli plausibili di mercato: considerando i quasi 900 MW geotermoelettrici attualmente operativi nel nostro paese, vorrebbe dire arrivare ad una quota almeno del 10% rispetto all’esistente, quindi qualcosa come 90 MW. Ad oggi siamo lontanissimi, quindi saremmo solo all’inizio e ci sarebbe tutto lo spazio».

Quale politica di incentivazione a livello nazionale potrebbe favorire un impiego più sostenibile dell’energia geotermica, anche alla luce della recente normativa elaborata in materia dalla Regione Toscana?

«La recente normativa regionale (LR n.7, 5 febbraio 2019) è stata concepita principalmente proprio per favorire un utilizzo più sostenibile dell’energia geotermica. In particolare lo fa subordinando il rilascio delle autorizzazioni per nuovi impianti a media ed alta entalpia, nell’ambito delle concessioni esistenti, e di nuove concessioni, a diverse condizioni fondamentali: l’utilizzo delle migliori tecnologie disponibili al fine di ridurre le emissioni di gas inquinanti e limitare le ore di non funzionamento a non più del 2% annuo; il monitoraggio in continuo dell’acido solfidrico e stagionale di mercurio, arsenico, boro e ammoniaca; il corretto inserimento paesaggistico, con ricadute territoriali e sociali, ivi comprese quelle occupazionali ed economiche quali l’impiego locale dell’energia termica; sono infine premiali iniziative volte all’utilizzo di almeno il 10% della CO2 emessa dall’impianto.

Questi vincoli porteranno l’attuale gestore ad applicare soluzioni di seconda generazione per efficienza ed affidabilità sulla rimozione di inquinanti, e questo di per sé sarebbe un importante miglioramento in un contesto che è già piuttosto positivo nel confronto internazionale (impianto AMIS di abbattimento acido solfidrico e mercurio presente in tutte le centrali).

Riguardo alle possibili politiche di incentivazione a livello nazionale per favorire un impiego più sostenibile dell’energia geotermica, mi rifaccio in parte alla risposta precedente: gli impianti tradizionali, che hanno le concessioni, sono da regolamentare, mentre quelli innovativi sono da incentivare, almeno nella fase iniziale e fino a quando non avranno raggiunto una quota significativa di mercato. Tra quelli innovativi includo, oltre ai cicli binari a totale reiniezione, anche quelli a bassa entalpia, che fanno uso di tecnologia binaria, possibilmente combinando la risorsa geotermica con altre fonti rinnovabili, quali ad esempio quella solare. Rientrerebbero nelle taglie delle concessioni di ricerca e consentirebbero di allargare il raggio della geotermia ben oltre quello attuale, limitato al territorio toscano. Gli impianti a reiniezione totale non dovrebbero avere problemi a rispettare gli stessi limiti (ovvero riuscire a reiniettare per il 98% del periodo di esercizio), anche se ad oggi non esistono fondamenti per valutarne l’esercizio reale, non esistendo appunto impianti di questo tipo».

Uno dei principali ostacoli alla diffusione della geotermia nel mercato energetico sta oggi nella percezione negativa maturata verso questa fonte rinnovabile da parte di alcuni media, di alcuni decisori politici e di una parte della popolazione locale. Quale ruolo può giocare una maggiore comunicazione ambientale sui reali vantaggi e svantaggi legati all’impiego delle tecnologie geotermiche?

«Uno degli obiettivi principali del progetto GEOENVI è proprio quello di cercare di fare chiarezza, tramite l’utilizzo di metodologie riconosciute dalla comunità scientifica internazionale e alimentate da dati accreditati da istituzioni e/o organismi riconosciuti, possibilmente misurabili e riproducibili o almeno previsti tramite modelli accreditati, sugli impatti ambientali delle tecnologie geotermiche tradizionali, cercando anche di fornire previsioni attendibili anche riguardo agli impianti innovativi a reiniezione totale. Come detto all’inizio, lo strumento probabilmente più adatto per questo è l’analisi del ciclo di vita degli impianti geotermici (LCA), che fornisce indicatori quantitativi d’impatto ambientale, sulla salute umana, sull’occupazione del suolo, sul consumo di risorse primarie ecc. a fronte delle utilità che producono, ovvero i kWh elettrici, termici o entrambi (unità funzionale).

Sgombrare il campo dalle percezioni, spesso foriere di strumentalizzazioni politiche e sociali, è un passo fondamentale per mostrare la geotermia per quello che effettivamente è: ovvero una tecnologia energetica come tutte imperfetta e non a impatto zero, ma con un bilancio positivo che vale il prezzo dell’impatto. L’unico modo, o almeno quello più efficace, per fare chiarezza in questo senso è l’adozione di strumenti di comunicazione abbastanza semplici e comprensibili anche ai non addetti ai lavori ma basati su approcci scientifici. Una delle attività di GEOENVI sarà anche quella di fornire metodologie LCA semplificate ad uso di non esperti, come gli addetti alla comunicazione, i decisori politici ed eventualmente le rappresentanze sociali, in modo da metterli in grado di valutare con oggettività scientifica gli effettivi impatti legati all’utilizzo dell’energia geotermica, possibilmente sgombrando la mente da impostazioni preconcette. Nell’ambito del progetto c’è poi un intero workpackage dedicato alla comunicazione efficiente e non specialistica dei risultati del progetto, che dovrebbe raggiungere in maniera capillare le varie entità territoriali, economiche e amministrative interessate.

In pratica la domanda dovrà essere semplicemente: a cosa servono gli impianti geotermici? A produrre kWh elettrici e/o termici. Questo effetto utile, quale impatto ha sull’ambiente, le risorse, il territorio, la salute umana ecc. anche a confronto con altre possibili tecnologie rinnovabili e non? Già le prime valutazioni nell’ambito di GEOENVI indicano bilanci ambientali a favore dell’utilizzo della risorsa geotermica.

Non ultimo, parlando di valutazioni ed entità accreditate, i partner del progetto GEOENVI sono totalmente trasversali, includendo organismi pubblici di ricerca, entità istituzionali, l’attuale gestore delle centrali geotermiche nonché compagnie concorrenti che, sotto il controllo della Commissione europea, dovrebbero garantire la spesa di un notevole patrimonio di conoscenze e dati settoriali nell’ambito della giusta imparzialità, al fine di giungere a risultati non affetti da condizionamenti percettivi o strumentali».