Il campo di ricerca è negli Stati Uniti d’America, le Università coinvolte sono l’Ohio State University e l’Università del Minnesota, l’obiettivo -potremo dire- “salvare capra e cavolo”.
Fuor di metafora quello che il team di ricercatori guidato da Tom Buscheck, un geologo del Lawrence Livermore National Laboratory, sta cercando di sperimentare è un sistema tecnologico che intreccia due tecnologie su cui gli USA stanno investendo da tempo e non solo nel campo della ricerca. Si tratta da una parte del fracking, tecnologia grazie alla quale gli Usa sono tornati ad essere tra i grandi produttori (e presto forse anche esportatori) di petrolio e l’altra è il CCS (Carbon Capture and Storage), ovvero il sistema che dovrebbe permettere di stoccare l’anidride carbonica –in forte eccesso negli strati più bassi dell’atmosfera e tra i responsabili del riscaldamento del pianeta- sotto la superficie terrestre o in fondo agli oceani.
«Uno dei nostri obiettivi chiave quando abbiamo iniziato a sviluppare la tecnologia “CO2 plume geothermal” –ha detto Jimmy Randolph, un ricercatore del dipartimento di scienze della terra dell’università del Minnesota- è stato quello di individuare un modo per contribuire a rendere efficaci i costi dello stoccaggio della CO2, mentre si estendeva l’uso dell’energia geotermica».
La ricerca su cui sta lavorando il team dovrebbe, infatti, portare a sviluppare una tecnologia per lo sfruttamento della geotermia in grado di stoccare sotto terra la CO2 in eccesso ed utilizzarla per aumentare la produzione di energia elettrica di almeno 10 volte rispetto ai sistemi convenzionali, con l’obiettivo di ampliare l’attuale utilizzo della geotermia negli Usa e anche oltre.
Il progetto -gestito dalla Heat Mining Company, LLC, una startup autonoma dell’Università del Minnesota che punta ad avere nel 2016 un sistema operativo da presentare al settore industriale- è stato presentato recentemente al meeting annuale dell’American Geophysical Union.
«La nuova progettazione di impianti energetici –spiegano i ricercatori- assomiglia a un incrocio tra un impianto geotermico e un acceleratore di particelle (l’LHC usato al CERN di Ginevra): è dotato di una rete di pozzi orizzontali disposti ad anelli concentrici all’interno dei quali viene fatta circolare acqua mista a CO2 e azoto, per estrarre il vapore creato nelle profondità della terra ed utilizzarlo per attivare le turbine e generare elettricità».
«L’intento –ha evidenziato Buscheck- è quello di trarre il massimo vantaggio energetico dalle operazioni di iniezione del fluido, un grande miglioramento rispetto ai sistemi geotermici convenzionali».
«La differenza -come ha spiegato Jeffrey Bielicki, uno dei ricercatori del team- sta nel fatto che l’acqua che viene iniettata in profondità nel processo di fracking è parzialmente sostituita con anidride carbonica».
«Questo approccio combinato –ha spiegato- può essere almeno due volte più efficiente degli approcci geotermici convenzionali e può contribuire a sviluppare l’uso dell’energia geotermica negli Stati Uniti».
Il sistema è stato provato solo attraverso simulazioni al computer: in questi test, un sistema costituito da pozzi orizzontali a circa 3 miglia sotto terra distribuiti su 4 anelli concentrici, con l’anello esterno di circa 10 miglia di diametro, sarebbe in grado di assicurare una produzione pari a quella di una centrale a carbone di medie dimensioni e 10 volte di più di quella di un impianto geotermico statunitense di medie dimensioni.
In base alle simulazioni, un impianto di questo tipo potrebbe stoccare 15 milioni di tonnellate di CO2 all’anno, grosso modo la quantità emessa da 3 centrali a carbone di medie dimensioni.
Dimensioni e profondità che richiedono grandi spazi aperti e con bassa densità abitativa: condizioni che in paesi come l’Italia renderebbero difficilmente comunque applicabile questa tecnologia.
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