Sarà dura uscire con qualcosa di concreto da questa COP 18 sui cambiamenti climatici in corso di svolgimento a Doha nel Qatar. E anche la location non aiuta. Per carità ha anche un senso la scelta di organizzare la conferenza sui cambiamenti climatici causati dai gas di serra nel Paese con le emissioni procapite di CO2 più alte al mondo! E non bisogna certo sottovalutare l’effetto collaterale in termini di sostegno alla democrazia che tale scelta comporta. Ne ė stata testimonianza la manifestazione pubblica degli ambientalisti di questo Paese la settimana scorsa, che peraltro ha messo al centro delle sue rivendicazioni anche i diritti dei lavoratori (qui il 94% della forza lavoro è costituita da immigrati).
Un’ennesima prova che spesso difesa dell’ambiente e lotta per una maggiore giustizia sociale vanno volentieri a braccetto. Ma senza voler trascurare questa premessa, essere così distanti dalla realtà non aiuta affatto. Sì distanti dalla realtà perché Doha ė senz’altro il paradiso degli archistar con centinaia di grattacieli dalle forme più ardite e altrettante gru, a modificare il paesaggio urbano in continuazione grazie a una valanga di petrodollari. Ma sembra anche una gigantesca messa in scena con poche, rarefatte presenze umane (quasi come delle comparse) che nei dintorni del centro congressi spariscono del tutto. E qui dentro restano i professionisti della diplomazia internazionale e un pugno di rappresentanti delle Ong, di solito i più colti e preparati (io per esempio non sarò mai abbastanza grato a Mauro Albrizio di Legambiente e alle sue precise e puntualissime informazioni), che non possono certo esercitare quella pressione che sarebbe invece indispensabile per smuovere un negoziato stanco e imballato.
Il quadro è chiaro; ė quello delineato nell’ultima COP a Durban, in Sud Africa, lo scorso anno: occorre trovare un accordo globale entro il 2015 che entri in vigore nel 2020 per scongiurare quell’aumento della temperatura terrestre che ormai persino la Banca Mondiale, non certo un covo di estremisti ambientalisti, considera un pericolo devastante. E intanto qui si deve sottoscrivere il ‘Kyoto 2’ che ci accompagni verso quel 2020, perché il primo Protocollo di Kyoto scade tra meno di un mese.
Non pare che sul primo aspetto siano stati fatti passi avanti significativi. Il punto affinché Doha non sia un totale fallimento, ma che almeno tenga viva la speranza, è che le ultime difficoltà che ostacolano la sottoscrizione di Kyoto vengano superate. E anche se persino questo è difficile senza la pressione della società civile, ciò che noi sottolineiamo in queste ore è che i Governi europei avrebbero una responsabilità storica gravissima se non riuscissero a ottenerlo.