Il contesto recessivo e la pressione coordinata di industrie energivore e operatori energetici tradizionali hanno imposto il taglio delle bollette quale priorità assoluta di politica energetica. Soprattutto per un paese come l’Italia, che importa quasi l’80% del suo fabbisogno primario, questo cambio di prospettiva rischia di ipotecare non solo gli obiettivi di sostenibilità ambientale e sicurezza di approvvigionamento, ma anche il costo delle forniture nel lungo termine.
La competizione al ribasso sul costo dell’energia, imposta anche dall’esplosione degli idrocarburi non convenzionali negli Stati Uniti, mina infatti un percorso di disimpegno dalle fonti fossili che, a fronte di un possibile aggravio di breve termine, garantirebbe però energia pulita e a costi ragionevoli in modo strutturale. Pur rigettando questa filosofia miope, è il momento del realismo: le fonti rinnovabili non possono oggi sottrarsi alla sfida della bolletta. Fortunatamente, le caratteristiche strutturali del parco di generazione fanno del nostro sistema elettrico un’arena ideale per raccoglierla.
La bolletta elettrica si compone di quattro elementi, oltre alle tasse: componente energia, costi di dispacciamento, servizi di rete, oneri generali di sistema. Vanno aggrediti tutti. Il taglio della componente energia è l’habitat naturale delle rinnovabili. L’esplosione della produzione a costo variabile nullo ha già portato a una forte riduzione del prezzo all’ingrosso dell’elettricità, per cui la ricetta è facile: continuare ad installare rinnovabili, per quanto possibile dietro il contatore e in assenza di incentivi. L’affermazione dell’Autorità per cui l’autoproduzione non incentivata sfavorisce chi non può adottare soluzioni di generazione distribuita è estremamente debole: agli attuali livelli di penetrazione l’effetto redistributivo su oneri di rete e di sistema è più che compensato dall’ulteriore compressione della componente energia in bolletta. L’imposizione di oneri sull’autoconsumo non aiuta le bollette, ma le zavorra.
Gli oneri di dispacciamento coprono i costi di Terna per assicurarsi contingenti di energia e potenza con particolari specifiche tecniche, al fine dell’equilibrio e della sicurezza del sistema. La crescita delle fonti non programmabili aumenta il fabbisogno di questi servizi e, mettendo fuori mercato gli impianti convenzionali che tradizionalmente li forniscono, può ridurne l’offerta aprendo la strada a manipolazioni del mercato: i costi per gli utenti salgono, come nell’ultimo aggiornamento delle tariffe.
In attesa delle tecnologie di accumulo (stanno arrivando) occorre aprire il mercato dei servizi di dispacciamento alla generazione distribuita programmabile, coinvolgere nel dispacciamento una porzione molto più ampia di utenze in prelievo (aggregate dai grossisti) e utilizzare anche le fonti non programmabili per modulazione e riserva: quando c’è troppo sole e l’elettricità vale poco o nulla, meglio distaccare gli impianti e tenerli in riserva che inondare la rete. Ove questo comporti la perdita di incentivi, li si riconosca piuttosto a fronte del servizio di riserva.
Infine, è ora di mettere in discussione il regime proprietario degli impianti idroelettrici a pompaggio, una risorsa chiave e sottosfruttata. In sostanza, l’Italia è all’avanguardia nella gestione tecnica di un sistema con forte penetrazione di fonti intermittenti, ma nella gestione commerciale siamo ancora alla candela.
Gli oneri di rete remunerano i costi di realizzazione e gestione dell’infrastruttura fisica di trasmissione e distribuzione. Per scelta storica, pur trattandosi di costi largamente fissi, vengono in gran parte imputati in bolletta proporzionalmente ai prelievi dalla rete. Questo è distorsivo: dovrebbero essere applicati in misura fissa sulla base della potenza impegnata, responsabilizzando così le utenze a contenere i picchi di prelievo, anche attraverso l’installazione di sistemi di accumulo. Nel tempo ciò porterebbe a un dimensionamento più efficiente delle reti, oltre che a una stabilizzazione dei flussi di energia (e quindi a minori costi di dispacciamento).
E veniamo alla nota dolente degli oneri generali di sistema. Si può fare pulizia su alcune voci, ma il nodo è la componente A3, gli incentivi alle fonti rinnovabili. Ci sono state inefficienze ed eccessi, ma sia chiaro che eventuali tagli retroattivi non hanno nulla a che fare con la politica energetica: è semplicemente un tema di credibilità del sistema paese. Il modo razionale di sciogliere il nodo gordiano è spostare la copertura dell’incentivazione dalle bollette a una carbon tax su tutti gli usi di combustibili: parliamo di 25-30 euro a tonnellata, l’obiettivo iniziale dell’ETS. Sarebbe equa nei confronti degli utenti elettrici (che stanno sopportando in modo preponderante lo sforzo di decarbonizzazione di cui tutti beneficiamo), comporterebbe un taglio netto della bolletta elettrica a particolare beneficio della piccola e media impresa, e soprattutto internalizzerebbe nel costo dell’energia le diseconomie ambientali dell’uso dei combustibili climalteranti. Una carbon tax così concepita sarebbe soluzione radicale e complessa, con vincitori e vinti, ma le attuali criticità del sistema non si trattano con palliativi.
In definitiva, è imperativo che la filiera verde tolga alla lobby fossile la bandiera dell’energia a buon mercato, proponendo un piano alternativo, ambizioso, strutturale e analitico per il taglio delle bollette. I cardini del piano siano la base di un disegno di legge delega, e se il Governo non fosse recettivo si cerchi supporto in Parlamento. Le difficoltà dei produttori convenzionali e degli importatori di gas con contratti a lungo termine sta stritolando l’agenda energetica: è ora di liberarla.