u Continua a pagina 46Ora, il guaio è che alcuni gas, come l’anidride carbonica e il metano, hanno la propensione a trattenere la radiazione infrarossa del pianeta, riscaldandolo: non è colpa loro, è una proprietà fisica inoppugnabile. Non è di destra né di sinistra. Eppure, negli Usa, i repubblicani si ostinano a sminuire l’impatto umano sul riscaldamento. E il Paese più energivoro al mondo blocca così i progressi internazionali in tema di limitazione dell’effetto-serra. È vero che con lo shale gas al posto del carbone gli Usa hanno tagliato le emissioni del 13%, ma i loro consumi procapite restano stellari. Certo, negli ultimi anni quasi tutta la crescita delle emissioni-serra è arrivata da India e Cina. Le quali, in dieci anni, hanno aumentato le loro installazioni eoliche del 1.250%. E le loro emissioni procapite – che dovrebbero sempre essere una preoccupazione bipartisan – rimangono una frazione di quelle dello Zio Tom. La dipartita da combustibili fossili raccomandata dalla signora van der Hoeven, va avanti. A sua detta, troppo lentamente. Il «riscaldamento catastrofico del pianeta» che lei stessa paventa, non è una prospettiva di domani. La CO2 si accumula algebricamente nell’unica atmosfera che abbiamo, e ci resta mediamente più di un secolo. Il problema, più che le generazioni presenti, interessa quelle future. Quelle che devono ancora nascere e che, per ora, non votano alle elezioni.
Tra sviluppo e ambiente Rallenta la corsa all’energia pulita
La marcia planetaria verso un ambìto, nuovo sistema energetico, ha subìto una battuta d’arresto. A dirlo, con un certo senso di allarme, non sono le organizzazioni ambientaliste, ma Maria van der Hoeven, direttrice dell’Aie, l’agenzia energetica dell’Ocse. «Nonostante i discorsi dei leader mondiali, e nonostante il boom delle rinnovabili – ha sentenziato pochi giorni fa, nel presentare a Parigi un rapporto sul tema – l’energia prodotta oggi è sporca come quella di vent’anni fa».
L’aggettivo "sporca" non ha a che fare con le emissioni di polveri sottili e altri inquinanti. Ha a che fare con il carbonio. L’atomo numero sei della Tavola periodica è alla base della biologia terrestre, divide ciò che è organico da ciò che è inorganico, eppure quel carbonio intrappolato da milioni di anni nei combustibili fossili ha la cattiva abitudine – all’atto della combustione – di separarsi dall’idrogeno e di legarsi all’ossigeno nell’atmosfera per fabbricare copiose quantità di CO2, anidride carbonica.
Quest’ultimo rapporto dell’Aie introduce l’indice sull’intensità di carbonio, dal quale si evince che nel 1990 il mondo emetteva 2,39 tonnellate di CO2 per ogni unità di energia (misurata come una tonnellata di petrolio o equivalenti). Vent’anni dopo, nel 2010, l’indice non si è praticamente mosso: 2,37. Il motivo è banale: nonostante l’avvento del solare e dell’eolico, il mondo ha accresciuto la fame di energia e quindi anche il ricorso a petrolio, gas e carbone. «Mentre le temperature crescono per il continuo aumento delle emissioni di gas-serra – rincara la signora van der Hoeven – questa sostanziale mancanza di progressi dovrebbe suonare come un campanello d’allarme. Se vogliamo evitare un catastrofico riscaldamento del pianeta, dobbiamo accelerare l’addio ai combustibili fossili più inquinanti».
Sono giustappunto vent’anni che, nei consessi alle Nazioni Unite, si fanno promesse e dichiarazioni su un nuovo ordine energetico mondiale. Ma questa storia pare resti vergata nel libro dei sogni.
Il doppio boom dello shale gas e dello shale oil (metano e petrolio prodotti con la fratturazione idraulica di rocce che li imprigionano nel sottosuolo) ha migliorato la competitività dell’industria americana e, paradossalmente, ha pure portato qualche piccolo vantaggio ambientale, visto che la nuova abbondanza di gas ha messo in crisi il ben più "sporco" carbone. Ma ha consolidato la dipendenza da combustibili fossili, già oggetto di una contraddizione monumentale. Molti dicono che le energie rinnovabili stanno in piedi solo grazie ai sussidi dei governi. Eppure, la stessa Aie rammenta che i sussidi alle energie fossili sono quasi il triplo, nell’ordine di 480 miliardi di dollari all’anno.
«No», sentenzia il Fondo monetario internazionale: sono 1.900. In un recente rapporto del fondo di Washington si dice esplicitamente che, oltre ai sussidi diretti, l’uso smodato di combustibili fossili (ogni giorno il mondo brucia circa 90 milioni di barili di petrolio) è indirettamente incoraggiato anche dai prezzi falsati. Secondo gli economisti del Fmi, il prezzo del carburante dovrebbe incorporare anche i danni ambientali prodotti dalla sua combustione.
In questa logica, la tassazione bassa o nulla praticata da molti Paesi – vuoi per oliare l’economia, vuoi per fini di pura demagogia – produce un prezzo finale che incoraggia il consumo e la dissipazione di risorse non rinnovabili. E non si tratta di noccioline: gli Usa foraggiano indirettamente petrolio e carbone con 502 miliardi di dollari all’anno, la Cina con 279 e 116 la Russia. Se si aggiungono i paesi arabi e il Venezuela (dove fare il pieno all’auto con pochi centesimi è consolidata abitudine) il totale arriva facilmente a 1.900 miliardi.
Visto che l’Onu, proprio come Aie e Fmi, propugna l’obiettivo di limitare l’incremento della temperatura media planetaria entro i due gradi centigradi, ci può essere una contraddizione maggiore?