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Biomonitoraggio sugli impatti ambientali della geotermia: Cosa sappiamo

Già nel 1916 il botanico Bargagli-Petrucci descriveva gli effetti negativi osservabili sulla vegetazione nei pressi delle fuoruscite naturali di vapori a Larderello. Una rassegna sugli studi svolti da allora

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Già nel 1916 il botanico Bargagli-Petrucci descriveva gli effetti negativi osservabili sulla vegetazione nei pressi delle fuoruscite naturali di vapori a Larderello. Una rassegna sugli studi svolti da allora


Il recente articolo Biomonitoring studies in geothermal areas: a review, pubblicato da cinque ricercatori italiani sulla rivista scientifica Frontiers in environmental sciences offre una preziosa occasione per fare il punto della situazione in merito al biomonitoraggio come strumento per analizzare gli impatti ambientali della geotermia.

Come osservano nel merito dal progetto europeo GEOENVI, l’uso di indicatori biologici per identificare gli impatti ambientali della geotermia – anche in considerazione del buon rapporto costi/ benefici di questo metodo d’indagine – dovrebbe essere incoraggiato: soprattutto, potrebbe rivelarsi utile circoscrivere anzitutto lo stato ambientale delle aree geotermiche prima dello sfruttamento energetico, per poi documentarne l’evoluzione del tempo.

Un modus operandi che nelle aree di più antica coltivazione (come in Toscana, dove le tecnologie geotermiche nascono oltre due secoli fa) purtroppo è spesso difficile concretizzare.

Ciò non toglie però l’utilità del biomonitoraggio, che proprio in Toscana ha trovato terreno fertile come mostra lo studio citato.

A presentarne i capisaldi su greenreport.it è direttamente la prima firma della ricerca, Pierfranco Lattanzi (CNR), che ne contestualizza i contenuti: «L’energia geotermica può rappresentare un contributo importante alla nostra continua ricerca di risorse alternative per uno sviluppo sostenibile, ed è largamente utilizzata in molti paesi, compreso il nostro. Come tutte le attività umane, lo sfruttamento dell’energia geotermica ha potenziali conseguenze ambientali che devono essere opportunamente conosciute e valutate».

«Per monitoraggio biologico (o biomonitoraggio) s’intende – precisa nel merito Lattanzi – l’insieme di metodi che si basano sull’osservazione di organismi viventi e/o di parametri biologici per rilevare mutamenti indotti da contaminazione ambientale. Questi mutamenti sono spesso gli indicatori più diretti dei cambiamenti intercorsi negli ecosistemi; inoltre, il monitoraggio biologico in molti casi è praticabile con successo in situazioni (es., aree remote o poco accessibili) in cui lo sviluppo di reti strumentali di determinazione dei parametri ambientali può risultare difficoltosa. Per questi motivi, il monitoraggio biologico trova applicazione sempre più vasta».

Per quanto riguarda però la geotermia «la pratica di questi metodi risulta relativamente modesta, e in buona parte limitata agli storici campi geotermici della Toscana (Larderello-Travale e Monte Amiata). Già nel 1916 il botanico Bargagli-Petrucci descriveva gli effetti negativi osservabili sulla vegetazione nei pressi delle fuoruscite naturali di vapori a Larderello. Si devono però aspettare quasi quarant’anni per avere, da parte di Ornella Vergnano, una prima osservazione sistematica degli effetti del boro su olmi e pioppi, ed è del 1960 il primo studio volto a documentare le modificazioni degli ecosistemi in prossimità delle centrali geotermoelettriche. Nei vent’anni a cavallo tra il secolo scorso e l’attuale, si assiste al fiorire di una vasta messe di studi, per merito soprattutto di ricercatori dell’Università di Siena, tra cui ricordiamo Eros Bacci, Franco Baldi, Roberto Bargagli e Stefano Loppi».

Al di fuori del contesto italiano, invece, gli esempi di biomonitoraggio dell’impatto delle centrali geotermiche «sono scarsi» limitandosi ad alcuni studi in Islanda, Usa, Kenya, Messico e Nuova Zelanda.

Dettagliando dunque il bagaglio di conoscenze disponibili, Lattanzi spiega che «la maggior parte delle indagini si è basata sui licheni. Questi organismi infatti presentano notevoli capacità di accumulo di sostanze dall’atmosfera, e sono quindi ottimi rilevatori di inquinanti aerodispersi, quali Hg e H2S. Inoltre, la loro modalità di distribuzione è considerata di per sé un indicatore dello “stato di salute” di un ecosistema. In sintesi, i principali risultati ottenuti da questi ricercatori documentarono incrementi della concentrazione di specie inquinanti e diminuzione dell’indice di qualità basato sui licheni nel raggio di circa 500-1000 m dalle centrali geotermoelettriche; a distanze maggiori, gli effetti divengono trascurabili. È importante notare – conclude il ricercatore – che la maggior parte di questi studi fu condotta prima dell’introduzione, nelle centrali toscane, dei moderni sistemi di abbattimento degli inquinanti (AMIS): sarebbe utile ripetere oggi questo tipo d’indagini, per documentare gli effetti a lungo termine di queste installazioni».