Home Cosvig Verona-California, usare la luce per l’efficienza del solare

Verona-California, usare la luce per l’efficienza del solare

650
0
CONDIVIDI

Misurare, già in fase di progettazione, la capacità dei sistemi fotovoltaici di trasformare la luce, accorciando i tempi di ricerca e abbassando i costi. Da oggi è possibile grazie a uno studio condotto dal dipartimento di Biotecnologie dell’Università di Verona. Ne parliamo con il professor Roberto Bassi, autore della ricerca

Fonte: Qualenergia.it

Autore: Maurita Cardone

Migliorare l’efficenza dei sistemi fotovoltaici misurando, già in fase di progettazione, la loro capacità di trasferire la luce assorbita all’elemento che la trasformerà in voltaggio. Una ricerca pubblicata sulla rivista scientifica condotta dal dipartimento di Biotecnologie dell’Università di Verona, in collaborazione con l’Università di Berkeley (California) apre la strada a sistemi più efficienti, che siano pannelli fotovoltaici o alghe ingegnerizzate, nello sfruttamento della luce solare. Ci spiega come il professor Roberto Bassi, uno degli autori della ricerca.
Professor Bassi, su cosa si sono concentrate le vostre ricerche?
Abbiamo cercato i principi fondamentali della trasformazione dell’energia solare. Noi lavoriamo sull’ingegnerizzazione delle alghe, ma nei pannelli solari, come nei sistemi biologici, i principi della prima fase di assorbimento e trasferimento della luce sono gli stessi. Entrambi hanno un sistema di trasduzione dell’energia che è fatto di due elementi. Un elemento è l’antenna che assorbe la luce e la trasferisce. L’altro elemento prende l’energia che è stata trasferita e la trasforma in un voltaggio.
E cosa avete scoperto? 
Sia per le piante che per i pannelli ci sono due tipi di problema: uno è il fenomeno del cosiddetto quenching che avevamo già spiegato in uno studio pubblicato su Science nel 2008. L’altro problema, su cui ci siamo concentrati ora, è che la luce, seppure abbondante sul pianeta Terra, è molto diluita: la quantità per metro quadrato è limitata. Bisogna quindi concentrarla. Per fare questo, tutti i sistemi sia naturali che artificiali, usano delle antenne fotosintetiche che sono delle molecole colorate (nel caso delle piante è la clorofilla), una vicina all’altra, che assorbono tutti i fotoni che arrivano e li concentrano. In un pannello questo avviene deponendo degli strati di colorante fatto di sostanze chimiche sopra agli elettrodi. Tuttavia finora mancava una teoria che spiegasse quando la matrice funziona e quando non funziona. Fino a che i pigmenti sono diluiti va tutto bene, ma se io per assorbire con grande efficienza la luce concentro tante molecole e le metto vicine in modo che prendano tutti i fotoni, queste interagiscono l’una con l’altra e si ha qualcosa di simile alla scarica a terra dell’energia in un circuito elettrico. I sistemi biologici si sono inventati di legare questi pigmenti a delle proteine in maniera che siano tutti ben in ordine, in modo che le molecole non si tocchino l’una con l’altra e non ci siano contatti. Ma finora non si riusciva a misurare questa cosa. Quindi, anche con le sostanze sintetiche dei pannelli solari non si riusciva mai a prevedere se funzionavano oppure no.
E voi avete trovato la soluzione.
In questo esperimento noi abbiamo preso i sistemi biologici che abbiamo costruito in laboratorio, e che avevamo mostrato funzionare, e a Berkeley hanno misurato la coerenza ovvero la capacità degli eccitoni, formati dai fotoni che vengono assorbiti, di rimanere coerenti cioè di muoversi in fase, trasferendosi tra una molecola e l’altra di clorofilla; in altri termini, la capacità di trasmissione senza decadere a terra, senza cortocircuito dell’energia.
Quali sono le applicazioni pratiche di questa scoperta?
La cosa più interessante è che ora noi, sia nei sistemi biologici che ingegnerizziamo sia nei pannelli, già nell’elemento che progettiamo, possiamo misurare la coerenza. Non abbiamo bisogno di fare il pannello o ignegnerizzare e far crescere l’alga per vedere se funzionano, ma già a monte possiamo fare un modellino in laboratorio, misurarne la coerenza e sapere con buona probabilità se questo sarà capace di assorbire bene la luce. Questo accorcia di molto i tempi della ricerca e fa risparmiare fondi.
E questa scoperta può già essere applicata a tecnologie esistenti?
Direi di sì. La variabile a questo punto è la mancanza di investimenti. In laboratorio noi abbiamo prodotto ceppi algali che producono cinque volte più di quelli che vengono normalmente fatti nei fotobioreattori. I ceppi normali producono circa 40 tonnellate per ettaro per anno. I nostri ceppi ingegnerizzati in laboratorio producono tra le 200 e le 220 tonnellate per ettaro. La resa teorica massima, usando tutta la luce che incide sulla superficie terrestre, è stimata in 300, quindi siamo molto vicini al massimo possibile. Per i pannelli la strada è un po’ più lunga. Con i sistemi biologici è tutto pronto, cambio un gene in particolare, produco una proteina ingegnerizzata, la rimetto dentro ma tutto il resto è pronto. Invece con i panelli bisogna fare il contrario. Si costruisce il cuore che assorbe la luce e poi bisogna costruirci intorno il sistema che lo trasformi in voltaggio.
Quindi il futuro dell’energia è nelle alghe?
Non credo ci sia una via alternativa. Di sicuro il sistema funziona. Dovremmo solo riuscire a produrre biomassa in grandi quantità. I costi al momento sono un po’ più alti di quello del petrolio, ma di poco. E, rispetto ai sistemi artificiali, le alghe si riproducono da sole. Certo le infrastrutture sono ancora costose, ma se aumenteranno gli investimenti si creeranno economie di scale. Questo dipende dall’industria. Ma per investire l’industria vuole un prodotto, quindi noi dovremmo presentare ceppi molto produttivi. Al momento tuttavia mancano i servizi per testare i ceppi che vengono costruiti. In Italia non c’è nemmeno un bioreattore dove fare i test. Per ora noi facciamo crescere i nostri ceppi in Germania e in Olanda grazie a un progetto europeo di cui siamo parte.
Ma da altre parti del mondo stanno già usando le alghe come combustibile.
A  Shanghai e in California ci sono degli impianti industriali che usano alghe per fare biocombustibili, ma il principio è diverso: lì non nutrono le alghe con la luce, bensì con zuccheri derivati da scarti alimentari. Usano le alghe come fossero lieviti, le mettono al buio in un fermentatore, le nutrono con zuccheri e queste trasformano gli zuccheri in grassi che vengono estratti per fare biodiesel. Questo permette di riciclare i residui dell’industria alimentare e ritrasformarli in biocarburanti. Ma con questo sistema non riusciremo mai a fare abbastanza energia per i nostri bisogni. Non può essere la soluzione finale. Tuttavia può essere integrata in sistemi misti che usano il sole e, per esempio, la paglia (particolarmente interessante se si pensa che di media il 60 per cento delle colture risulta in paglia che non viene utilizzata), la cui cellulosa può essere degradata a zuccheri per nutrire le alghe, quando queste raggiungono il livello massimo di crescita cui possono arrivare con la sola luce del sole. In questo modo avremmo colture molto dense il che ci permetterebbe di usare meno energia per estrarre le alghe dall’acqua: quindi maggiore efficienza del sistema.