Intervista ad Aurelio Cupelli, direttore dell’associazione di imprese Rete Geotermica
Quali sono i reali impatti ambientali legati all’impiego della geotermia – con le varie tecnologie disponibili – come fonte rinnovabile utile per produrre l’energia di cui tutti abbiamo bisogno?
Per sgombrare il campo dagli equivoci e rispondere con solidi dati scientifici è nato il progetto europeo GEOENVI (Tackling the environmental concerns for deploying geothermal energy in Europe), condotto da 16 partner internazionali e finanziato attraverso il programma UE Horizon2020.
La prima occasione di confronto pubblico sul tema si è tenuta proprio in Italia – Paese che mantiene ancora una leadership di settore e che ha visto nascere le prime tecnologie geotermiche oltre 200 anni –, con un dibattito organizzato a Roma da CNR, CoSviG, CSGI, EGEC, Enel Green Power e Rete Geotermica; per approfondire i contenuti emersi durante il dibattito seguendo i criteri di equità e imparzialità, GeotermiaNews ha posto a tutti i relatori intervenuti a Roma 5 quesiti, incentrati su alcuni dei principali temi volti a individuare la strada migliore per uno sviluppo sostenibile del comparto geotermico, a favore della collettività.
Diamo oggi la parola a Aurelio Cupelli, direttore dell’associazione di imprese Rete Geotermica
Il progetto Horizon 2020 GEOENVI ha tra i principali obiettivi lo sviluppo di una metodologia per la valutazione degli impatti ambientali, considerando tutte le fasi di vita di un impianto geotermico. Quali aspetti crede debbano essere approfonditi, al fine di poter effettuare una efficace comparazione tra gli impatti generati dalle differenti tecnologie utilizzabili per la produzione di energia?
«La sezione del progetto GEOENVI che svilupperà la valutazione degli impatti ambientali legati all’utilizzo della risorsa geotermica per la produzione di energia elettrica verrà condotta dal prof. Basosi e dal suo team di ricercatori. Il metodo che utilizzeranno, denominato LCA (Life Cycle Assessment) è da considerarsi molto innovativo nel panorama della valutazione degli impatti, in quanto non si ferma ad una semplice comparazione tra le situazioni ante e post operam in relazione alla realizzazione di un impianto, ma ne analizza i molteplici aspetti che interagiscono con l’ambiente durante tutto il ciclo di vita dell’impianto stesso.
In questo caso, le tecnologie che verranno analizzate e valutate saranno quelle applicabili ed utilizzate nel settore geotermoelettrico.
Ma sarebbe auspicabile che vengano sviluppati anche gli aspetti relativi alle caratteristiche dei fluidi geotermici ad oggi utilizzati e quelli di cui oggi abbiamo acquisito conoscenza, come effetto della importante attività di ricerca condotta negli ultimi anni, anche grazie ai tanto contestati numerosi permessi di ricerca, che stanno permettendo il disegno di una nuova mappa della risorsa geotermica, che va anche oltre le aree tradizionali.
Sarebbe opportuno che lo studio certifichi le sostanziali differenze in termini di impatti ambientali che si possono avere non solo con il diversificare le applicazioni tecnologiche, ma anche attraverso una valutazione dei diversi obiettivi minerari, cioè delle diverse tipologie di fluidi geotermici investigabili ed utilizzabili».
Uno dei principali elementi di criticità, attorno al quale si sta sviluppando un intenso dibattito, riguarda le emissioni di CO2: le centrali geotermoelettriche tradizionali rilasciano anidride carbonica in atmosfera, benché di origine naturale, ma la lotta contro i cambiamenti climatici impone sin da subito una revisione delle priorità in agenda per determinare la decarbonizzazione dell’economia. Quali pensa siano le migliori soluzioni disponibili per affrontare il problema?
«Una parte della mia risposta, la potrei riallacciare alla domanda precedente. È indubbio che le centrali geotermoelettriche tradizionali rilascino CO2 in atmosfera. Come è indubbio che le aree geotermiche legate ad aree vulcaniche hanno una loro attività emissiva naturale, indipendentemente dall’utilizzo a fini energetici della risorsa geotermica. Il dibattito quindi dovrebbe concentrarsi se e quanto l’utilizzo della risorsa può modificare il flusso naturale.
Nell’effettuare questa valutazione, ritornando al metodo LCA, ritengo che possa essere significativa una mappatura ed una raccolta delle misurazioni dei flussi naturali e allo stesso tempo sarebbe opportuno sviluppare un’analisi del potenziale incremento della crescita vegetativa, soprattutto delle piante arboree, nell’area più immediatamente interessata dalle emissioni di CO2, sia quelle naturali che quelle indotte dalle centrali. Il tutto da mettere in relazione con una misurazione diffusa sul territorio della concentrazione di CO2 nell’aria.
Questo partendo dall’assunto che l’aumento della concentrazione della CO2 in atmosfera non è dovuto solo all’aumento delle emissioni climalternati, ma anche, e forse soprattutto, alla deforestazione ed alla perdita di suolo coltivato.
Poi non dobbiamo dimenticare che il sistema elettrico nazionale è un sistema di merito, e cioè in presenza di energia elettrica rinnovabile sulla rete non vi è possibilità di immissione per l’energia elettrica prodotta con fonti fossili.
Premesso tutto questo, è comunque innegabile che resta la necessità di applicare sugli impianti esistenti, tutte quelle soluzioni impiantistiche che innanzi tutto migliorino l’efficienza complessiva degli impianti, così da ridurre le emissioni specifiche. Quindi soluzioni come l’ORC sui cascami termici come a Bagnore, o gli usi termici diretti come i teleriscaldamenti e le attività produttive (caseificio, birrificio, serre, ecc), possono essere concrete risposte al problema.
Ma l’obiettivo più premiante non può che essere la totale reimmissione dei fluidi, compresi i gas in essi contenuti. Probabilmente dovranno essere condotti dei grossi sforzi per ridurre o annullare le emissioni degli impianti esistenti, ma il contributo dei nuovi impianti che nascono come zero emission design alla decarbonizzazione dell’economia sarà fondamentale».
Quali sono in Italia e in Toscana, regione leader a livello europeo per quanto riguarda l’utilizzo della geotermia, i principali strumenti politici per promuovere l’adozione delle migliori tecnologie disponibili, nonché di buone pratiche, che consentano una minimizzazione degli impatti? Ritiene possano essere integrati da ulteriori misure?
«La politica potrebbe mettere in atto diversi strumenti. Lo strumento legislativo è uno di questi. Peraltro la Regione Toscana si è dotata recentemente di una legge con il principale scopo di porre delle condizioni specifiche per la realizzazione di nuovi impianti.
L’inserimento di limiti emissivi più stringenti, pone obbligatoriamente l’investitore nella necessità di applicare le migliori tecnologie disponibili.
L’imposizione di un recupero della CO2 in uscita dall’impianto pone l’investitore nella condizione di dover implementare il proprio sistema produttivo con altri sistemi connessi.
È chiaro quindi che se l’impresa fa la scelta delle tecnologie zero emission, sa in partenza che può risolvere a priori questi problemi.
La disponibilità di calore recuperabile dall’impianto può diventare una risorsa capace di creare nuova occupazione, ma non solo applicando l’ennesimo obbligo all’investitore.
Infatti è qui che ritengo ci sia necessità di lavorare per poter far si che la nuova legge regionale abbia la sua piena applicazione. Credo che sia soprattutto la politica locale che dovrà darsi da fare, perché sarà necessario creare un contorno di servizi ed opportunità fatte, ad esempio, di viabilità, agevolazioni fiscali, piani di sviluppo, iter autorizzativi in tempi certi, ecc».
Quale politica di incentivazione a livello nazionale potrebbe favorire un impiego più sostenibile dell’energia geotermica, anche alla luce della recente normativa elaborata in materia dalla Regione Toscana?
«Lo sviluppo di un progetto geotermico richiede tempi molto lunghi, prima di tutto perché sono necessarie tutta una serie di indagini ed attività di ricerca al fine di individuare e caratterizzare l’eventuale fluido geotermico presente. Ciò prima di tutto per ridurre il cosiddetto “rischio minerario”, cioè il margine di errore nella stima dei costi. Considerati gli alti costi che hanno queste attività di indagine, ma soprattutto il costo della perforazione dei pozzi, il “rischio minerario” è il primo ostacolo che un investitore in questo settore deve prendere in considerazione.
Ai tempi del monopolio statale sull’energia è stato il contribuente ad accollarsi il rischio minerario. Con gli attuali schemi incentivanti, il rischio minerario è tutto a carico dell’impresa, che si accolla tutte le spese con la speranza che possa un giorno realizzare l’impianto, per poi rientrare dell’investimento fatto attraverso la vendita dell’energia che produrrà e che potrà vendere ad un prezzo “incentivato”.
Considerati quindi i tempi e i costi di sviluppo di un progetto, una buona politica incentivante per favorire lo sviluppo del settore, deve prima di tutto avere un orizzonte di programmazione di almeno medio periodo, cioè non meno di 5 anni.
Con questi tempi, gli operatori possono realmente programmare con più serenità e certezza. Avendo allo stesso tempo la possibilità di meglio indagare ed applicare le più moderne tecnologie con l’obiettivo di riduzione gli impatti.
Ad oggi, se si escludono i progetti presentati entro il 2016, tutti gli altri stanno continuando ad andare avanti senza nessun provvedimento o programma incentivante all’orizzonte.
Purtroppo, ad oggi, in Italia esiste anche un ulteriore rischio, il “rischio autorizzativo”. Di fatto, oggi, pur riuscendo ad arrivare in fondo alla fase di ricerca e di progetto dell’impianto, riuscire ad ottenere un’autorizzazione possiamo dire che è difficile quanto trovare un buon fluido geotermico e richiede un impegno di risorse di vario tipo, quasi pari a quanto serve per costruire la centrale stessa».
Uno dei principali ostacoli alla diffusione della geotermia nel mercato energetico sta oggi nella percezione negativa maturata verso questa fonte rinnovabile da parte di alcuni media, di alcuni decisori politici e di una parte della popolazione locale. Quale ruolo può giocare una maggiore comunicazione ambientale sui reali vantaggi e svantaggi legati all’impiego delle tecnologie geotermiche?
«Francamente su questo tema rischio di essere un po’ evasivo. Da diversi anni, soprattutto seguendo diversi progetti, e da un paio di anni da direttore della Rete Geotermica, la mia principale occupazione è stata proprio il confronto con i territori e le realtà politiche, sociali ed economiche locali.
Laddove si è potuto instaurare un confronto onesto e trasparente, i risultati sulla penetrazione di una corretta informazione tecnologica ed ambientale sono stati interessanti. Mi piace citare le visite condotte agli impianti geotermoelettrici della Baviera, che hanno visto la partecipazione complessiva di circa 70 tra amministratori, funzionari e portatori di interessi economici e sociali, oltre che del mondo accademico. Presto organizzeremo nuove visite, in risposta alle molte richieste ricevute.
Purtroppo meno soddisfacenti sono da considerare i risultati ottenuti con quei soggetti i quali non hanno voluto aprire nessun confronto, rifiutando volutamente e strumentalmente ogni discussione sul merito dei progetti e delle attività svolte, avendo invece come unico obiettivo quello di occupare le pagine dei giornali e le discussioni sui social con posizioni oltranziste, spesso decontestualizzate, ribadendo concetti e slogan in gran parte superati, se non risolti, dai progetti stessi ai quali continuano ad opporsi.
Ritengo che la comunicazione ambientale abbia un ruolo fondamentale. Noi da tempo la stiamo facendo, cercando di migliorarne la qualità e la fruibilità.
Ma soprattutto auspicheremmo che da parte dei media, soprattutto quelli della carta stampata, venisse tenuta una posizione perlomeno più neutra, dando cioè spazio anche a chi vuol fare informazione più pertinente ai progetti di cui si discute».