Che percezione hanno proprietari e manager delle principali aziende operanti in tutta Italia dell’economia circolare? Per rispondere a questa domanda il Criet (Centro di ricerca interuniversitario in economia del territorio) ha elaborato un apposito sondaggio in collaborazione con Ipsos Italia e LeFac – Tbs Group, per poi presentare i risultati dell’indagine nell’Auditorium dell’Università di Milano-Bicocca.
L’approccio è di ampia portata (nel campione delle 152 imprese rispondenti, il 39% opera nell’industria, 13% nei media e comunicazione, 13% nella finanza, 13% nel commercio e 48% in altri servizi), ma i risultati raccolti mostrano come molto ci sia ancora da migliorare. L’economia circolare è vista soprattutto come un approccio radicale al modo di produrre e utilizzare materiali di scarto, oltre che come efficienza energetica e di risorse, ma dal punto di vista della conoscenza, il tema dell’economia circolare è chiaro per meno della metà del campione (40% imprese sotto i 250 addetti segnalate come “piccole”, 46% delle imprese sopra i 250 addetti, segnalate come “grandi”). Ed è un peccato in primis per le imprese, perché quelle che sanno ben approcciare e comunicare l’economia circolare riescono – come ha mostrato l’indagine del Criet – a migliorare la propria performance, specie quella ambientale, la relazione con il cliente così come i risultati economico-finanziari. Per un’ampia fetta del campione è soprattutto la reputazione a giovarne, e anche l’immagine di marca ne beneficia. «Si tratta di una sfida importante – sintetizza Marco Frey della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa – perché attraverso opportune scelte sia produttive, sia di comunicazione on line e off line, è possibile far coesistere l’efficienza dei sistemi produttivi con una migliore reputazione e, in definitiva, un più favorevole posizionamento competitivo rispetto ai concorrenti».
Come migliorare dunque? Ne abbiamo parlato sia con il direttore del Criet e responsabile scientifico della ricerca, Angelo Di Gregorio (per quanto riguarda l’economia circolare), sia con Franco Terlizzese, direttore generale della DGS UNMIG (Direzione generale per la sicurezza anche ambientale delle attività minerarie ed energetiche) del Ministero dello Sviluppo Economico (con particolare riferimento al tema delle energie rinnovabili).
Il sondaggio rivolto da Criet (in collaborazione con Ipsos e LeFac) a proprietari e manager delle principali aziende operanti in tutta Italia mostra che le istituzioni regolatorie sono ritenute una leva per avvicinarsi all’economia circolare solo nel 29-49% dei casi dagli imprenditori. Com’è possibile rendere più incisivo l’impatto degli strumenti di policy?
Di Gregorio: «Tra le motivazioni esterne all’impresa che spingono le stesse ad avvicinarsi all’economia circolare, le istituzioni regolatorie influiscono in misura diversa sui rispondenti. Per il cluster dei “maturi” – ossia i rispondenti che nelle loro attività hanno un’attenzione per l’economia circolare sopra la media del campione – sono un driver per il 49%. Tra gli “aperti” – ossia i rispondenti che nelle loro attività hanno un’attenzione per l’economia circolare nella media – il 29% dichiara che le istituzioni regolatorie incidono sulla loro propensione all’adozione dei principi di economia circolare. Infine, le istituzioni regolatorie condizionano solo il 20% dei rispondenti del cluster “chiusi”, ossia le imprese che nelle loro attività hanno un’attenzione per l’economia circolare sotto la media del campione. Al tema delle istituzioni regolatorie sono associate le regole stringenti nello sviluppo di metodi per la gestione dei rifiuti, così come dei processi produttivi eco-efficienti.
Si tratta di fattori sicuramente importante che danno indicazioni chiare su come operare. Ciononostante, le percentuali di risposta del nostro campione ci portano a pensare che, se da un lato l’aspetto regolatorio è presente nelle politiche di avvicinamento all’economia circolare, dall’altro il ruolo del regolatore, così come gli strumenti dallo stesso utilizzati, vanno forse ampliati. Oltre all’aspetto sanzionatorio e del vincolo, sono altresì importanti i meccanismi di incentivo, da stabilire anche in partnership con altri istituti, quali ad esempio quelli creditizi, al fine di mettere le imprese, specie le Pmi, nelle condizioni di adottare i principi di economie e trasformarli anche in opportunità di business. Il ruolo del regolatore è un tema non banale e a parer mio che acquisterà progressiva importanza in ciò che il prof. Aiello – neo presidente dell’Aidea – ha chiamato nel nostro convegno la circular disruption».
Il sondaggio Criet evidenzia inoltre che il tema dell’economia circolare «è chiaro per meno della metà» del campione di imprenditori intervistato. I dati presentati durante l’ultimo Ecoforum mostrano invece che complessivamente l’88% dei cittadini ritiene l’economia circolare «un modello economico che fa bene al Paese». Come si spiega questa differenza percettiva?
Di Gregorio: «Si tratta di due prospettive diverse, quella delle imprese e quella dei cittadini, che concorrono parimenti ad alimentare il potenziale di sviluppo del nuovo paradigma dell’economia circolare. Per questo motivo vale la pena monitorare entrambe. Occorre tuttavia fare un distinguo.
Nella nostra ricerca, i rispondenti sono stati Ceo e manager in area marketing & comunicazione, commerciale, media e finanza, attivi in aziende di tutte le dimensioni e trasversali rispetto ai settori di attività (in particolare nel comparto produttivo manifatturiero al 45%, dei servizi 27%, dei media al 10%, e al 9% per commercio e finanza).
Credo che tra i consumatori il tema dell’economia circolare sia stato intercettato da una vasta fascia di consumatori (non tutti però) grazie al lavoro dei media, del passaparola e anche per una curiosità personale della persona. Da qui a dire che i consumatori sappiano esattamente cosa sia l’economia circolare e, soprattutto, cosa comporti nelle scelte d’impresa direi che ne passa.
La prospettiva dell’imprenditore/manager, invece, è immediatamente virata sulle implicazioni gestionali e di business che un paradigma così dirompente come è quello dell’economia circolare può comportare nel modo di fare impresa, nel rapporto fabbrica-mercato, nella stessa concezione del prodotto in tutti i momenti del suo ciclo di vita, così come nelle nuove collaborazioni tra attori anche diversi che si rendono necessarie per poter distribuire il vantaggio dell’essere circolari lungo l’intera catena (o dovremmo forse dire circolo?) del valore. Non per nulla si parla anche di simbiosi industriale, intendendo con questa espressione tutte quelle collaborazioni tra due o più imprese allo scopo di scambiare, condividere, gestire congiuntamente le risorse, con vantaggi economici ed ambientali per tutte le parti coinvolte e la possibilità di creare nuove opportunità di business.
Chiedere quindi alle imprese se conoscano l’economia circolare, significa chiedere loro di ragionare sui possibili benefici che l’economia circolare sta portando al loro business, sulle conseguenze che il cambio di paradigma comporta e sul loro concreto impegno per adottarne i principi. La frequenza di risposta più bassa nel nostro questionario rispetto a quello di Ecoforum non credo che indichi una minore conoscenza del tema da parte degli imprenditori/manager; la loro risposta, infatti, indica una consapevolezza di ciò che l’economia circolare implichi e contiene anche una segnalazione indiretta del livello di recepimento dell’economia circolare da parte dei rispondenti».
I risultati emersi nel corso del medesimo Ecoforum hanno messo in evidenza anche una dissonanza cognitiva importante: nonostante gli elogi e l’attenzione personale rivolta dagli intervistati all’economia circolare (il 62% si informa il più possibile su come fare in maniera corretta la raccolta differenziata), solo il 37% dei cittadini ritiene che «il rifiuto differenziato vada trattato attraverso processi industriali per riciclarlo e produrre nuovi manufatti». Com’è possibile ricucire questo scollamento dalla realtà?
Di Gregorio: «Con una buona e costante comunicazione. L’essere umano è per natura adattivo, ma nella misura in cui intravede nel cambiamento un vantaggio. Passare a pratiche virtuose, anche semplici e quotidiane come quelle del conferimento differenziato dei propri rifiuti domestici è un risultato che scaturisce certo dalla coscienza del singolo, ma che è anche frutto di una serie di iniziative di sensibilizzazione e documentazione sulle conseguenze di quella pratica, sui vantaggi economici che essa porta, sui benefici all’ambiente e alla collettività, sulle filiere e l’indotto che una gestione razionale dei rifiuti può attivare – si pensi alle risorse prime secondarie e allo sviluppo di energie da biomasse – nonché sul contenimento della Tari a beneficio del portafoglio del singolo contribuente. Se non comunichiamo tutto ciò, come possiamo pensare che il cittadino davanti al cassonetto agisca in modo consapevole e corretto?
È un lavoro di squadra, quello della comunicazione dell’economia circolare e dei benefici che può portare. Ognuno faccia la sua parte, imprese comprese. Sul fronte dei contenuti, vanno ripensati i costrutti della comunicazione, sia alla luce del moltiplicarsi dei touch point attraverso i quali i cittadini entrano in contatto con le varie organizzazione – imprese e pubblica amministrazione compresa – sia alla luce di una nuova narrativa che sia in grado di mettere i destinatari della comunicazione nella condizione di fare propri i principi dell’economia circolare con chiarezza e convinzione.
Con quali obiettivi? Lavorare di più e prima sulle motivazioni, rispetto al cosa di possa/debba fare e cosa no. Le azioni sono una conseguenza».
Simili problemi sembrano affliggere anche il mondo delle energie rinnovabili italiane: sebbene il 90% degli italiani dica di essere favorevole al loro sviluppo, secondo l’Osservatorio Nimby Forum nel settore energetico italiano oltre i tre quarti delle opere contestate ha a che fare proprio con le fonti pulite. Quali pensa siano le iniziative da poter mettere in campo per arginare il fenomeno?
Terlizzese: «Oggi in Italia la contestazione alla realizzazione di nuove iniziative è molto forte, indipendentemente dal settore cui le opere in progetto appartengono. L’alta percentuale di contestazione ad opere rinnovabili dipende dalla relativa abbondanza di progetti in tale settore piuttosto che da un’avversione specifica ad esse. Occorre quindi cercare di ricondurre a livelli fisiologici la diffusa contrarietà al nuovo, interrogandosi sulle modalità di condivisione dei progetti e programmi con le persone interessate alle conseguenze della loro localizzazione.
Oggi in genere la gente si trova a conoscere i progetti al momento della loro presentazione per le valutazioni tecniche e ambientali, in una fase in cui essi sono già, per legge, “definitivi” senza un vero dialogo per conoscere fin da subito i veri punti di forza, debolezza, costi e benefici in un’ottica di sostenibilità sociale, ambientale ed economica per il territorio: il dialogo che ne segue quindi tra aziende, autorità e residenti parte da presupposti sbagliati e forzati. Un’idonea valutazione strategica dei programmi che si intendono attuare in un determinato contesto regionale presuppone lo sviluppo di un dialogo di informazione, comprensione e condivisione, indispensabile per poter raggiungere un consenso sufficiente a garantire un percorso di progettazione e realizzazione adeguato nei modi e nei tempi. Tutto questo dovrebbe essere supportato da un quadro normativo che valorizzi e chiarisca meglio le modalità di esecuzione della VAS (Valutazione Ambientale Strategica), introducendo al suo interno procedure certe di pubblicazione della mappatura del carico ambientale esistente sul territorio, dei piani delle aree destinate allo sviluppo e di accettazione pubblica ed una capacità di programmazione di medio e lungo periodo da parte degli enti preposti alla programmazione territoriale».
La necessità di una maggiore e migliore comunicazione in tema di energie rinnovabili è emersa con forza anche durante il convegno organizzato a Pisa dal Cnr – con la partecipazione della Dgs-Unmig del ministero dello Sviluppo economico – in occasione del bicentenario del primo impiego industriale dell’energia geotermica in Toscana (e nel mondo). Quale ruolo possono esercitare le istituzioni di fronte a queste esigenze manifestate dal mondo geotermico?
Terlizzese: «Anche per la geotermia, lo sviluppo delle azioni che ho sommariamente delineato al punto precedente è un presupposto necessario. Il Ministero dello Sviluppo Economico negli scorsi due anni, su stimolo parlamentare, ha realizzato un piano delle aree con potenziale geotermico, le linee guida per il loro sviluppo e le procedure per il monitoraggio, tutti strumenti a disposizione degli enti regionali competenti che devono essere utilizzati nella pianificazione dello sviluppo dei programmi geotermici».
Due anni fa appunto il ministero dello Sviluppo economico pubblicava le linee guida per la coltivazione della risorsa geotermica a media e alta entalpia in Italia, che ammonta ad almeno a 500milioni di tonnellate equivalenti di petrolio (e a un massimo di 104^4 MTep): pensa che il Paese sia sulla strada giusta per una loro valorizzazione sostenibile, in cosa crede sia necessario migliorare?
Terlizzese: «L’Italia ha avviato già da tempo un percorso di valorizzazione della risorsa geotermica per uso elettrico che ha fatto da guida a molti Paesi, oggi sta facendo molto per l’uso locale della bassa entalpia, che ha un forte potenziale. Peraltro, al di fuori delle aree geotermiche “storiche” di Larderello e in parte dell’Amiata l’ulteriore sviluppo della geotermia per usi elettrici procede stentatamente. Occorre migliorare sotto molteplici punti di vista: puntando all’innovazione tecnologica sviluppata da una pluralità di validi soggetti, favorendo piani di sviluppo regionali e nazionali completi e armonizzati, e garantendo maggiore e migliore comunicazione preventiva con le persone che risiedono nelle zone interessate e con le aziende che già operano sul territorio».