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“Un pozzo ci salverà”

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Intervista a Giuseppe De Natale alla guida del “Campi Flegrei Drilling Project”

Fonte: OggiScienza

Autore: Daniela Cipolloni

Giuseppe de Natale, della sezione di Napoli dell’Osservatorio Vesuviano dell’INGV, è alla guida di quello che è considerato il più importante esperimento al mondo nel campo della vulcanologia,“Campi Flegrei Deep Drilling Project”.
Perché scendere nel cuore di un supervulcano?
Il progetto nasce con l’idea di creare, nei Campi Flegrei, un grande laboratorio naturale internazionale per le ricerche sui vulcani, sulla mitigazione dei rischi naturali e sulle energie rinnovabili.  Uno degli obiettivi fondamentali è studiare la struttura interna del vulcano mediante perforazioni, per comprendere i meccanismi che generano il bradisisma e le eruzioni.Inoltre, i pozzi aiuteranno a ricostruire meglio la storia eruttiva passata e saranno equipaggiati con sensori innovativi in fibre ottiche che permetteranno di monitorare, con una precisione circa 1000 volte maggiore di quella attuale, piccoli terremoti e deformazioni del suolo.
Quanto sono profonde le perforazioni?
Le perforazioni previste sono due: un pozzo pilota di soli 500 metri di profondità, quello che stavamo per effettuare prima dello stop, e un secondo, fino a circa 3,5 km.
Quali sono i rischi delle trivellazioni?
Se si intende “rischio per la popolazione”, assolutamente nessuno. Soltanto in un Paese ormai al tramonto come l’Italia si può immaginare che proprio l’Istituto pubblico preposto alla mitigazione dei rischi possa creare i rischi stessi. Peraltro il nostro istituto si trova a ridosso dell’area di perforazione, e molti di noi abitano a Bagnoli. Dunque, dovremmo essere folli a provocare rischi per noi stessi.
In che modo perforare un pozzo di 4.000 metri può aiutare a prevedere le eruzioni vulcaniche?
La possibilità di prevedere un’eruzione ai campi Flegrei è strettamente connessa alla capacità di comprendere i fenomeni di bradisisma. Attualmente, sono due i modelli possibili per il bradisisma flegreo, e con i dati di superficie non è possibile discriminare tra i due. Il problema è che i due modelli possibili hanno implicazioni molto diverse in termini di rischio di eruzione. Soltanto lo studio diretto delle caratteristiche delle rocce profonde, con una perforazione, può rispondere in maniera definitiva alla questione. Inoltre, l’installazione di sensori innovativi in pozzo permetterà un grande progresso nella nostra capacità di rilevare anche i più piccoli segnali pre-eruttivi, migliorando fortemente la capacità di prevedere le future eruzioni. I Campi Flegrei, in quanto area vulcanica, sono a rischio eruzione, come il Vesuvio.
Chi si è opposto al progetto, contesta in particolare il luogo prescelto per le trivellazioni: Bagnoli. Un’ex area industriale soggetta a bonifica, ad alto tasso abitativo, ai margini della caldera… Perché è stata scelta proprio Bagnoli?
Perché quella è l’area ideale, proprio per le ragioni elencate. L’area più importante da studiare e da monitorare è chiaramente quella a più alta urbanizzazione, perché a maggior rischio. È fondamentale ricostruire la stratigrafia delle eruzioni passate nel settore orientale della caldera, le cui eruzioni mettono a rischio Napoli. E lì, il sito più adatto, perché rappresenta un’area non urbanizzata di 3,5 km2, dove ci sarebbe il minimo disturbo per la popolazione. Il problema è che senso abbia opporsi ad un progetto scientifico di ricerca vulcanologica, portato avanti dai massimi esperti del settore e da un istituto pubblico, quindi senza alcun interesse privato di sfruttamento, come potrebbe avere una società privata.
Ma non si potrebbero spostare i lavori da un’altra parte, in un’area più “pacifica”?
Sarebbe certo più semplice perforare una zona remota, magari sugli Appennini. Purtroppo, l’area vulcanica da studiare sta lì, nei Campi Flegrei, nel cuore di una megalopoli di alcuni milioni di abitanti. È incredibile come nel senso comune si possa confondere la soluzione con il problema. Il problema è la presenza di una città di milioni di abitanti dentro un grande area vulcanica, Campi Flegrei e Vesuvio, non la ricerca scientifica, che invece rappresenta l’unica possibile soluzione.
C’è un’altra obiezione: negli anni Settanta sono stati fatti scavi profondi nella caldera e hanno evidenziato che l’energia geotermica profonda è inutilizzabile a causa dell’alta salinità dei fluidi, mentre potrebbero funzionare piccoli impianti geotermici. Allora perché scendere a 4 mila metri?
Intanto, ribadisco che l’obiettivo principale del CFDDP è la mitigazione del rischio vulcanico, la geotermia è un obiettivo secondario. La prima parte dell’obiezione, comunque, è completamente errata. Le perforazioni ENEL-AGIP non furono seguite dalla costruzione di impianti per altri motivi, di politica energetica. Semmai si valutò che l’impresa non era estremamente remunerativa in un’epoca in cui il petrolio costava pochissimo, l’Italia aveva un piano nucleare e non c’era alcuna spinta per le rinnovabili. Oggi, i dati ENEL-AGIP evidenziano condizioni estremamente favorevoli anche economicamente (con le nuove tecnologie, tra l’altro, l’alta salinità dei fluidi non costituisce alcun problema). Sull’utilizzazione di piccoli impianti diffusi, con pozzi poco profondi, sono estremamente d’accordo; lo dico in tutte le sedi opportune da anni. Il futuro delle economie avanzate è nello sviluppo sostenibile. La geotermia in Campania, e in Italia, è una risorsa enorme, rinnovabile ed eco-compatibile, e può essere utilizzata a tutte le scale. Un pozzo di 500 metri è difatti un pozzo molto superficiale. Perché allora suscita così scalpore da aver bloccato il cantiere?