Home Cosvig Rossi: la mia Italia di mezzo. Fatta di storia e di economia

Rossi: la mia Italia di mezzo. Fatta di storia e di economia

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Con una lettera al Corriere Fiorentino, il presidente Enrico Rossi spiega l’idea di una macroregione Toscana-Umbria-Marche. Sabato 21 novembre, tre presidenti di Regione, quelli di Toscana, Umbria e Marche appunto, si incontrano per avviare una comune riflessione sull’integrazione dei servizi e la riforma dell’assetto regionalista dello Stato. L’appuntamento è presso Palazzo Donini in Corso Vannucci 96 a Perugia, sede della giunta regionale umbra.

Fonte: Toscana-Notizie.it

Autore: Toscana-Notizie.it

È lecito parlare di un’Italia di mezzo? Toscana, Umbria e Marche possono formare una macroregione? La storia in questo ci dà una mano. Questa regione esiste già in nuce nella storia d’Italia, da molti secoli prima dell’unità e del regionalismo. Per comunanza di arte e paesaggio e a dispetto del sortilegio d’una geografia impervia. Dall’alba del medioevo le sue vallate appenniniche disseminate di pievi, abbazie e monasteri, così come le città e le corti rinascimentali, hanno accolto la genesi d’idee alla base dell’evo moderno. In movimento e in una terra senza precisi confini. Reticolo di Comuni e Signorie da cui è sgorgata la linfa dell’ "l’Italia più Italia" di Putman: quella delle virtù civili e della comune lingua.

Basterebbe seguire i pittori. Giotto migrante dal Mugello ad Assisi sulle orme di San Francesco. La sua scuola e il suo stile da Assisi e Rimini a Jesi e Fabriano. Piero della Francesca, umanista errante per antonomasia, da San Sepolcro ad Arezzo, Perugia, Urbino, Loreto e Ancona. L’urbinate Raffaello attratto a Firenze dai modelli di Massaccio, Donatello, Leonardo e Michelangelo. I pensatori politici. Machiavelli da Firenze colla sua lezione per il buon Principe e Baldassare Castiglione da Urbino con quella per il buon Cortegiano che furono i genitori delle parole chiave per la politica del mondo moderno. Terra mediterranea e frontaliera, separata dall’appennino, ma in cerca del Nuovo Mondo col fiorentino Amerigo Vespucci e alla scoperta della Cina col gesuita Matteo Ricci da Macerata.

Oltre l’onda lunga della storia, l’unità la ritroviamo anche nel presente, definendo come fa Bonomi questa realtà: un "macro territorio" attraversato da fenomeni simili pur dentro la crisi. Identificando le tre regioni come: "piattaforma territoriale con proprie peculiarità" e preparandole a "darsi un nuovo spazio di rappresentazione, sia in rapporto al Paese, sia in rapporto agli spazi europei". Questo è il passo ambizioso da compiere oggi per la ricerca di senso e per motivare energie e passioni necessarie, che sole possono condurre a scelte coraggiose in tempi sempre più veloci e inarrestabili. Sempre Bonomi ci parla di un "capitalismo molecolare" e delle sue metamorfosi dentro la crisi come di un dato "pre-economico", antropico.

L’altro aspetto della "comunanza" è il paesaggio che reca l’impronta degli uomini. Negli anni Cinquanta Guido Piovene compiva il suo "Viaggio in Italia" cogliendo un Paese sul nascente boom economico. Son passati tanti anni, ma certi dati della realtà riferiti alle tre regioni (Toscana, Umbria e Marche) sembrano permanere come substrato o "invariante strutturale" alla base di tanti elementi comuni che caratterizzano l’Italia di Mezzo. Per Piovene la "Toscana è tra le regioni del mondo più famose per la loro bellezza", dove è "luogo comune parlare della dolcezza e della grazia dei suoi paesaggi".

Non molto diverse le parole usate per descrivere la bellezza dell’Umbria: "Dall’alto si contemplano paesaggi come patinati, conche di un verde argenteo, colline che scendono lentamente a valle recando torri, campanili, basiliche, monasteri". La dolcezza è il tratto comune.

Anche per le Marche, dove le differenze tendono ad essere più pronunciate e il paesaggio presenta tratti simili con l’interno toscano e umbro dell’Italia di Mezzo. "I colori dell’Adriatico sono diversi da quelli del Tirreno" e i mari davvero non si somigliano, ma la "collina marchigiana, che non è quella toscana né umbra, né veneta, è dolce, serena, patetica, lucida, priva di punte". E "i colli sono tondeggianti, con pendici prative, lunghe, lente. E’ il prototipo – continua Piovene – del paesaggio idilliaco e pastorale […] il paesaggio italiano più tipico". Come detto, Piovene ci parla di una mezzadria in agricoltura allora dominante. Complemento di un assetto economico basato sulla prevalente piccola proprietà e sull’artigianato, anche se non privo di presenze produttive significative con grandi imprese manifatturiere. In Umbria ad esempio prevale "nelle valli la mezzadria, nelle zone di montagna le piccole proprietà". Anche le Marche "sono una vasta regione di campagnoli, mezzadri e piccoli proprietari". Così come in Toscana "nella conduzione della proprietà agricola prevale la mezzadria".

Un tratto comune cui si lega anche la prevalenza politica della sinistra socialcomunista, più forte in Toscana e in Umbria, meno nelle Marche e che in tempi di guerra fredda sembra preoccupare molte inchieste come quelle di Piovene, Piero Ottone o Montanelli.

Dal dopoguerra e per tutto il Novecento diversi economisti e sociologi, ancor prima di Bonomi (in particolare Giacomo Becattini e Giorgio Fuà), hanno pensato come ‘centrale’ e identitaria per le tre regioni questa "trama" mezzadrile e politica dando vita a quel complesso e fragile "capitalismo dal volto umano" caro a Becattini. Su questa base si è inserita una cultura politica condivisa che ha governato le amministrazioni locali e le regioni dell’Italia di Mezzo attraverso uno straordinario collante di interessi pragmatici e valori e ideali. Sviluppo sano, diffuso e solidale. Buona qualità dei servizi. Un’Italia di Mezzo non solo geografica, ma anche della redistribuzione. Basata su patti territoriali per lo sviluppo, le cui asincronie e asimmetrie temporali bisognerebbe indagare. Tempi, ritmi e caratteristiche diverse hanno infatti scandito la crisi nelle tre regioni.

Meraviglia, ad esempio, l’emergere in tempi più recenti di un forte sistema territoriale basato sullo sviluppo della piccola e media impresa delle Marche. Oppure, in Umbria, la capacità di esprimere un dinamismo inaspettato con imprese di medie e grandi dimensioni che occupano il settore della moda e del made in Italy. O, nella Toscana centrale, l’intreccio virtuoso tra piccola e media impresa e grandi multinazionali; nei settori della moda così come in quelli della meccanica e dell’energia. Sotto le ceneri della crisi covano ancora i carboni ardenti dei distretti.

Non sono mancate le debolezze nella scarsa capacità di reazione. Soprattutto agli inizi del nuovo secolo rispetto alle attese di una crescita adeguata alla globalizzazione hanno indugiato nella rivendicazione di altri primati: la qualità della vita e il benessere diffuso che ancora si riusciva a garantire. Lo sviluppo locale delle Marche è sembrato invece nello stesso periodo più dinamico. In grado di tradurre il ritardo rispetto a Toscana e Umbria in progresso evolutivo rispetto ai rischi di nanismo e localismo.

Poi la crisi ha travolto tutti. Ha spostato la competizione in una dimensione globale. Le imprese sono state costrette a cercare nuovi mercati internazionali. Una parte dell’imprenditoria è riuscita a far fronte a questa sfida allargando la dimensione dell’azienda e impegnando le risorse accumulate in nuovi investimenti produttivi, stringendo una nuova alleanza con i lavoratori che hanno acconsentito ad uno sforzo produttivo e a ritmi lavorativi straordinari per salvare l’occupazione e l’impresa. Un’altra parte è stata invece incapace di fare fronte alla nuova situazione. Un’altra parte ancora ha scelto la via più facile del ritiro nella posizione di rendita chiudendo l’azienda e salvando il proprio patrimonio finanziario.

Ma nel complesso la risposta alla crisi c’è stata ed è stata forte. Questa reazione virtuosa dell’impresa manifatturiera, che è alla base della tenuta dell’Italia di Mezzo, ha cambiato la struttura economica e sociale delle nostre regioni. Scrive ancora Bonomi: "la macro area Toscana-Umbria-Marche è sottoposta ad una comune dinamica di duro confronto con un processo di modernizzazione che agisce a tenaglia sugli assetti socio economici e sui sistemi di rappresentanza ereditati dal Novecento". Ricostruire un nuovo blocco sociale di forze produttive per lo sviluppo e aspirare a una nuova politica di coesione e inclusione sociale è oggi il compito di una moderna forza di sinistra.

E’ ovvio che non faremo passi avanti se la politica non costruirà un’alleanza con la parte più forte e dinamica della società, per promuovere e includere chi è più debole. Questa operazione è squisitamente politica ed è possibile affrontarla a condizione di fare scelte coraggiose e nuove. La prima scelta dovrebbe essere quella d’introdurre una discontinuità nelle vecchie alleanze territoriali: le risorse disponibili devono essere impegnate a favore delle imprese dinamiche, il cui sviluppo funziona da traino e esempio per le altre.

Puntando sulle reti tra imprese, gli investimenti in ricerca e tecnologia, le infrastrutture di servizio immateriali e materiali.

Il tema della dimensione istituzionale di queste scelte – che in Toscana abbiamo in gran parte compiuto – non è ininfluente. Nessuna regione dell’Italia di Mezzo può da sola ambire a raggiungere la massa critica necessaria. Una macro regione dell’Italia di Mezzo avrebbe con queste scelte ben altro peso in Europa. Essa dovrebbe assumere la dimensione europea come l’unica entro cui collocarsi per pretendere che i territori siano più presenti nelle politiche dell’Unione.

Anche verso i grandi gestori nazionali di servizi essenziali allo sviluppo, la macro regione potrebbe contare di più. Autostrade, ferrovie, servizi bancari, investimenti pubblici corrono sempre più il rischio di essere condizionati nelle scelte da regioni più grandi o dalle grandi concentrazioni presenti nel corridoio Nord-Sud dell’Italia. Certamente vitali per tutto il Paese, ma che non possono diventare, per assenza di alternative, l’unico oggetto di attenzioni e desideri.

Per questo si deve cambiare se non vogliamo che le istituzioni locali, in primo luogo le regioni, risultino irrilevanti, poco significative, o peggio ancora di ostacolo allo sviluppo delle forze produttive. Il vecchio modello di sviluppo sopravvissuto per tutta la seconda metà del Novecento è entrato in crisi e con esso è entrato in crisi anche il blocco sociale che lo sosteneva. Non serve delegittimarlo ma ricostruirlo su basi nuove. Temperando il pendolo dell’autonomia con quello dell’interesse nazionale. Solo un regionalismo "differenziato" può mettere al sicuro il Paese dal rischio di una rottura del suo fragile equilibrio, impastato di coesione e redistribuzione sociale e territoriale.

Dopo il referendum confermativo della legge di riforma costituzionale si potrebbe avviare un percorso di politiche comuni e fusioni dei servizi che le esercitano su base regionale. L’economia competitiva globale non ammette alcun tipo di rendita. Per tornare alla tutela del paesaggio, dopo anni in cui siamo passati da alluvione in alluvione, la forestazione, la manutenzione del territorio diventano problemi centrali di un impegno comune. A esso un contributo essenziale può darlo la nostra agricoltura non estensiva e di qualità. Come asse di sviluppo e di occupazione. Come attività di regolazione idrogeologica del territorio dell’Italia di Mezzo.

Con altrettanta passione e determinazione dovremo riprendere la lotta per la costruzione dell’infrastruttura fondamentale: il corridoio balcanico. Connettendo Livorno con Ancona. Realizzando l’eterna incompiuta Grosseto-Fano per intrecciare i flussi del grande corridoio Lisbona-Kiev e quindi per tornare a esprimere vocazione mediterranea e transfrontaliera. Un ruolo fondamentale spetta alle forze sociali. Anche il sistema bancario è chiamato in causa. Su questo crinale potremmo aspettarci sorprese positive. Oltre lo spazio chiuso del localismo e delle chiusure corporative ci attende il mondo infinito delle connessioni globali. La crisi dei corpi intermedi non è la fine della mediazione e della regolazione degli interessi in gioco. Dobbiamo ricostruire il perimetro del bene comune. Una nuova intermediazione intelligente. Capace di misurarsi con sfide democratiche e morali. La lotta alle diseguaglianze e alle povertà. Tutto cambia ma restano i valori che sostanziano la linfa della nostra dolce patria civile che, pur estranei alle piccole patrie orgogliosi del nostro essere umbri, marchigiani e toscani, chiamiamo Italia di Mezzo.