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Palestina: energia rinnovabile Made in Italy

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Tre impianti pilota a Betlemme, Dura e Nablus. Obiettivo: l’autonomia energetica dei Territori occupati

Fonte: http://www.lindro.it

Autore: Luca Troiano

La tecnologia individuata è la medesima per tutte e tre le strutture e consiste nella ‘digestione anaerobica’, ci spiega Marco Fiala, docente dell’Università di Milano e capo del team scientifico che ha condotto lo studio di fattibilità, “cioè nella degradazione di sostanze organiche provenienti da frazione umida di rifiuti soldi urbani e biomasse agricole ad opera di batteri. Questi impianti produrranno biogas che genererà sia energia elettrica, attraverso l’azionamento di un motore endotermico, che energia termica”, Fiala, sottolineando che si tratta di impianti pilota, dice “puntiamo ad una scala impiantistica ridotta per introdurre per la prima volta questo tipo di tecnologia nel Paese e testarne la propria replicabilità. L’obiettivo è favorire un incremento dell’autonomia e dell’efficienza energetica della Palestina il nostro compito come team di ricerca è stato di fornire un supporto scientifico all’iniziativa. La produzione di energia attraverso fonti alternative è un obiettivo perseguito ormai in ogni angolo del mondo e a maggior ragione lo è in quelle aree, dove la dipendenza dai combustibili fossili è ancora molto forte”. Questa tecnologia genera energia non da fonti primarie bensì sfruttando biomasse residuali, che altrimenti costituirebbero un problema per il loro smaltimento. Quindi per la Palestina il vantaggio è doppio. “Ed anche Israele vedrebbe ridursi una quota dell’energia destinata ai Territori occupati per destinarla al consumo interno”, sottolinea Fila.

I riflessi più importanti si conta averli, naturalmente, sull’economia palestinese, anche se Boschetto afferma che la loro portata è difficile prevederla in questa fase. Gli impianti produrranno non solo energia elettrica, ma anche energia termica. “Solitamente quest’ultima viene ‘buttata’; noi invece vogliamo recuperarla e utilizzarla. Sicuramente lo faremo a Betlemme, dove il consorzio dei comuni locali che gestisce la discarica utilizzerà questa energia per generare fresco in estate e caldo in inverno. Ma anche a Dura sto spingendo la locale cooperativa, che riunisce oltre 300 agricoltori, ad impiegare questa energia nelle loro serre”. Nel corso di una presentazione del progetto al master di Business & Administration presso la Bethlehem University, con la quale la Fondazione è già impegnata in una serie di iniziative (hanno creato insieme un Osservatorio economico e promosso ricerche per lo sviluppo del turismo), Boschetto ha proposto agli studenti una borsa di studio per coloro che svolgeranno delle tesi sui possibili effetti economici di questo progetto, anche allo scopo di spingerli a studiare la loro realtà locale: “per quanto sembri strano, questa è ancora poco approfondita. Pensi alla difficoltà che ha il nostro Osservatorio economico per reperire anche solo un singolo dato”.

Molte le difficoltà incontrate dalla Fondazione per l’implementazione del progetto, “tantissime”, dice Boschetto. “Avendo girato il mondo, posso dire che la Palestina è un posto che cattura l’anima, ma fa rabbia constatare quanto si difficile lavorare laggiù. Ho incontrato meno difficoltà in Sierra Leone, dove pure le condizioni erano drammatiche, che in Palestina. Parlo di difficoltà operative: sembra di essere sempre al punto di partenza. I soldi non mancano, ma manca la capacità di gestirli”. Sono le difficoltà usuali che si trovano nell’operare in regime d’occupazione. “Anche solo attraversare i vari check point è un problema. Gli israeliani hanno un presidio militare in zona, e pochi giorni prima della mia ultima visita in uno dei villaggi rurali della zona avevano abbattuto l’unico traliccio che forniva energia alla popolazione, oltre ad una moschea e alcune case. C’è il rischio che anche gli impianti che intendiamo costruire possano essere danneggiati dalle azioni militari israeliane, ma noi portiamo avanti questo progetto anche per aiutare gli occupati ad affrancarsi dagli occupanti. I palestinesi hanno una grande voglia di pace”.

Il settore della cooperazione è tra quelli in cui più si è esercitato lo sviluppo di progetti legati alle energie rinnovabili. “Per esperienza, posso dire che molto spesso questi progetti hanno il difetto basilare di trasferire una tecnologia in sistemi-Paese molto arretrati, senza favorire la sua nascita dal ‘basso’”, afferma Fiala. “Tale tecnologia viene, per così dire, ‘subita’, senza cioè essere metabolizzata dai contesti in cui essa di volta in volta si inserisce. In più, un investimento richiede di essere seguito non solo dal punto di vista finanziario, ma anche da quello tecnologico, cioè nell’assicurare una corretta gestione delle strutture: molte volte il punto di caduta è proprio lì. In questo senso, l’introduzione di tecnologie semplici, elementari, permette di superare gli ostacoli posti dall’arretratezza dei singoli Paesi. Per fare qualche esempio, in Africa la nostra Facoltà ha seguito dei progetti di sviluppo del fotovoltaico e di irrigazione tramite lo sfruttamento dell’energia eolica. Anche l’Università di Torino e il Politecnico, per citare altri atenei, hanno delle sezioni legati alla cooperazione molto attivi in diversi Paesi”.

L’errore, spiega Fiala, è quello di valutare il successo di una tecnologia soltanto dal punto di vista imprenditoriale, cioè sul piano del risultato economico, molto spesso in funzione delle tariffe incentivanti previsto dai Governi. Quando questo tipo di supporto si esaurisce o viene ridotto – è il caso di Germania e Italia – viene meno anche il profitto e le pecche di questo sistema vengono alla luce. “Nei Paesi del Terzo Mondo pesano molto di più i fattori principali extraeconomici: lì l’alternativa è tra la necessità di fornire energie a zone che ne sono sprovviste o non fornirla. Pensiamo anche alla deforestazione: essa è dovuta essenzialmente all’assenza, in quei Paesi, di tecnologie più efficaci per produrre calore, con un enorme spreco di risorse e pesanti conseguenze l’ambiente. Da anni sostengo che gli elementi da considerare siano almeno tre, espressi in inglese con tre E: Environment, Economy e Energy. Una tecnologia può dirsi vincente quando l’efficienza energetica si accompagna alla redditività economica e alla riduzione dell’impatto ambientale. Su quest’ultimo punto, devo dire che la crescente attenzione intorno al tema dell’ambiente è senza dubbio uno dei dati più positivi che abbiamo riscontrato negli ultimi tempi”.