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Lo sviluppo è «sostenibile»? La via stretta tra gas serra e povertà. La mappa della sostenibilità

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Nel mondo 1,3 miliardi di persone non hanno accesso all’elettricità. Cambiamento climatico e la crescita della popolazione metteranno a dura prova il sistema energetico

Fonte: corriere.it

Autore: Stefano Agnoli

Se si dà retta al sociologo inglese Anthony Giddens (il teorico della «terza via» di Tony Blair), quello di «sviluppo sostenibile» è un concetto troppo vago, addirittura contraddittorio. Del tipo «botte piena e moglie ubriaca», per intendersi. Eppure da quando ha fatto la sua comparsa negli ultimi Anni 80 nel rapporto elaborato dall’ex primo ministro norvegese Gro Harlem Bruntland, è andato per la maggiore, contribuendo a trovare un punto di incontro tra «verdi», fan della decrescita e sostenitori del mercato. Ma è un concetto che viene da ancora più lontano, dallo studio su «I limiti dello sviluppo» pubblicato nel 1972 dal Club di Roma, dove si prospettava addirittura l’esaurimento delle risorse del Pianeta (terra, acqua, petrolio, minerali) e il rischio di un crollo improvviso degli standard di vita.

Declinato sul versante delle risorse energetiche, l’allarme dei primi anni Settanta si è dimostrato esagerato. Una maggiore attenzione su consumi e efficienza, e lo sviluppo tecnologico, hanno allungato di parecchio la vita utile delle fonti fossili di energia: petrolio, gas (si pensi alla rivoluzione americana dello «shale») e carbone non finiranno presto. A rendere però sempre attuale il concetto di «sostenibilità» sono quanto meno altre due questioni: il cambiamento climatico (il settore energia è responsabile di almeno due terzi delle emissioni di gas serra); la crescita della popolazione mondiale, che l’Agenzia internazionale dell’energia ritiene possa passare dai 7 miliardi di individui del 2012 ai 9 miliardi del 2040, con un tasso medio di incremento del 3,4% l’anno. Come soddisfare il loro diritto ad avere accesso a tutta l’energia di cui avranno bisogno?

Nel primo caso (le emissioni di CO2) un obiettivo internazionalmente riconosciuto per la verità esiste, ed è quello che sarà materia di aspra discussione alla cosiddetta «Conferenza delle parti» che si terrà a Parigi il prossimo dicembre: sarà la ventunesima del suo genere dopo l’esordio a Rio 1992, e si prefigge di mantenere l’incremento della temperatura nel limite di 2 gradi rispetto ai livelli preindustriali. Si tratta del cosiddetto «scenario 450» , coerente cioè con l’obiettivo di limitare la concentrazione di gas serra nell’atmosfera al di sotto di 450 parti per milione.

Un compito immane, se si pensa che ciò significherebbe che le maggiori economie del pianeta dovrebbero tagliare le loro emissioni di gas serra della metà nei prossimi quarant’anni. Che gli Stati Uniti, ad esempio, nel 2050 dovrebbero ricavare il 40% della loro elettricità da fonti rinnovabili e il 30% da nucleare. Che il 75% del chilometraggio del settore trasporti dovrebbe essere coperto con veicoli elettrici. Che le emissioni delle centrali a carbone dovrebbero essere «catturate» e «stoccate» sottoterra. Che per l’illuminazione degli edifici dovrebbe essere adottata la tecnologia a Led. Mentre la Cina, il maggior «emettitore» mondiale, dovrebbe abbandonare completamente l’uso del carbone entro la metà del secolo. Dopo aver però messo in funzione una centrale a carbone ogni settimana nei 7 anni dal 2005 al 2012.
In sintesi, ciò di cui dispone l’umanità negli anni a venire è un budget, un «tesoretto» da spendere di circa 1.000 miliardi di tonnellate di CO2 (adesso siamo intorno ai 31 miliardi di tonnellate l’anno) esaurito il quale l’obiettivo «2 gradi» non sarebbe più raggiungibile. Operazione complicata, perché secondo lo «scenario 450» le emissioni di gas serra dovrebbero raggiungere il «picco» prima del 2020 intorno ai 33 miliardi di tonnellate l’anno, per poi iniziare a scendere rapidamente. Il 2020, si badi bene, cioè dopodomani. E se anche a Parigi si trovasse a fine anno un’intesa non diventerebbe immediatamente esecutiva, ma scatterebbe proprio dal 2020. Troppo tardi.

Nello scenario «corrente» la situazione è quindi ben diversa, e ancora più difficile. Senza tenere conto di impegni non ancora presi ufficialmente dai governi ma mettendo nel conto quelli già annunciati (e lo scorso 31 marzo solo Ue, Usa, Russia, Messico, Norvegia e Svizzera hanno depositato all’Onu le loro intenzioni in vista di Parigi) il trend attuale è coerente con una concentrazione di gas serra nell’atmosfera di 700 parti per milione, il che si tradurrebbe in un esaurimento del «budget» intorno al 2040 e, soprattutto, in un aumento delle temperature di 3,6 gradi. Nel 2040 la domanda mondiale di energia sarebbe ancora coperta per il 75% (e in parti sostanzialmente uguali) da carbone, petrolio e gas naturale, e solo per il 19% da fonti rinnovabili (più il 7% di nucleare). Per avere prospettive serie di energia da fusione (vedi articolo nell’altra pagina) bisognerebbe aspettare almeno altri vent’anni.
Un problema, soprattutto se si pensa al previsto incremento della popolazione. Un processo che avverrà soprattutto in Africa, che registrerà intorno al 2030 il punto più alto del boom cinese e vedrà l’India diventare il Paese più popoloso. Ad oggi circa 1,3 miliardi di persone vivono senza accesso all’elettricità; di questi circa 700 milioni risiedono nell’Africa subsahariana; nel mondo 2,7 miliardi di uomini e donne cucinano e si riscaldano con biomasse, ovvero con legna, residui agricoli e anche letame essiccato. Di questi solo 800 milioni sono in India.
Insomma, c’è una via d’uscita? Come sostiene Giddens «i Paesi sviluppati devono realizzare massicci tagli alle proprie emissioni di gas serra, fin da subito. I Paesi in via di sviluppo possono aumentarle per un periodo al fine di permettere la crescita, dopodiché devono cominciare a ridurle». Sembra semplice. È la via stretta che dovrà essere percorsa a Parigi.