Un recente studio realizzato dal governo degli Stati Uniti ha calcolato, utilizzando tre modelli economici molto diffusi, in 37 dollari il costo cosiddetto “sociale” per ogni nuova tonnellata di CO2 prodotta nel 2015. L’EPA (Environmental Protection Agency) statunitense utilizza questo valore come riferimento per le norme in tema di gestione energetica, delle emissioni e per le azioni di mitigazione.
Uno studio uscito questa settimana sulla rivista Nature Climate Change, realizzato da un gruppo di scienziati di Stanford, afferma che i costi potrebbero essere molto più elevati, fino ad arrivare a 220 dollari per tonnellata di CO2 prodotta. Una cifra ben più considerevole.
Si parla dei costi che comporterebbe per esempio una diminuzione della produzione agricola, oppure una minore produttività dei lavoratori e ovviamente i costi per la salute umana e per riparare ai disastri ambientali causati dal surriscaldamento del clima.
Frances Moore, dottoranda nell’Emmett Interdisciplinary Program in Environment and Resources presso la Scuola di Scienze della Terra di Stanford e Delavane Diaz, dottoranda presso il Dipartimento di Management Science and Engineering presso la Scuola di Ingegneria di Stanford, che hanno condotto lo studio, sono partite dai modelli di valutazione integrata (IAM) utilizzati finora per calcolare l’impatto economico dei cambiamenti climatici, e li hanno integrati con recenti risultati empirici che suggeriscono che il cambiamento climatico potrebbe rallentare notevolmente i tassi di crescita economica, soprattutto nei Paesi poveri.
In particolare hanno utilizzato il Dynamic Integrated Climate-Economy (DICE) e lo hanno modificato ammettendo l’influenza del global warming sul cambiamento del tasso di crescita dell’economia, tenendo conto dell’adattamento a questi cambiamenti e dividendo poi il modello in due regioni che rappresentino i Paesi ricchi da una parte e quelli poveri dall’altra. Come ha commentato Diaz:
Ci sono stati molti studi che suggeriscono che Paesi ricchi e Paesi poveri se la passeranno in modo molto diverso in quanto a futuri effetti del cambiamento climatico.
Il limite dei modelli, per come venivano utilizzati prima, era di non riuscire a rendere conto di come i danni sarebbero potuti persistere nel tempo. Stando a quanto ha aggiunto Moore:
Per 20 anni i modelli hanno assunto che i cambiamenti climatici non possono influenzare il tasso di crescita di base dell’economia. Un certo numero di nuovi studi suggeriscono però che questo potrebbe non essere vero. Se il cambiamento climatico colpisce non solo la produzione di un Paese economico, ma anche la sua crescita, questo ha un effetto permanente che si accumula nel tempo, portando ad un costo sociale molto più elevato di carbonio.
Paesi come Canada, Messico, Regno Unito, Francia, Germania e Norvegia hanno usato i modelli IAM per analizzare proposte politiche climatiche ed energetiche, ma ora il quadro potrebbe cambiare, perché come spiega Diaz:
Se il costo sociale del carbonio è più alto, molte altre misure di mitigazione passeranno un’analisi costi-benefici.
Finora molte misure di mitigazione imponenti e costose non sono state utilizzate perché il gioco non valeva la candela, ma ora la prospettiva cambia completamente, rendendo più conveniente intervenire, sempre che i governi siano in grado di recepire il messaggio.
Anche questo modello ha però dei limiti, confessano le ricercatrici, il modello DICE non tiene in effetti conto dei tempi lunghi richiesti dalle energie rinnovabili, ad esempio, per il loro sviluppo e la loro diffusione, così come non tiene conto dell’impatto sulla crescita dovuto agli sforzi per la mitigazione.
Questo non dà però meno valore alla consapevolezza, che dobbiamo acquisire quanto prima, che potremmo trovarci in un futuro anche prossimo, ad affrontare danni e costi più imponenti di quello che abbiamo pensato finora.