“LA CINA si candida a diventare il Dragone Verde, vuole vincere la
corsa mondiale verso un’economia low-carbon, a bassa emissione di Co2”.
Non è propaganda del regime di Pechino. L’affermazione, fatta alla
vigilia della Giornata mondiale dell’Ambiente dell’Onu che si celebra
oggi, è di Steve Howard che dirige il Climate Group, importante ong
ambientalista americana. Howard indica la chiave di questa conversione:
“I dirigenti cinesi si sono convinti che questa è la nuova ricetta del
profitto”. Via via che si svelano i contenuti della maximanovra di
investimenti pubblici varati dalla Repubblica Popolare per rilanciare
la crescita, ecco che cosa si scopre: su 586 miliardi di dollari di
spesa pubblica aggiuntiva, ben 220 miliardi (il 40%) vanno a finanziare
l’industria verde, dal risparmio energetico alle fonti rinnovabili,
dall’auto elettrica al motore ibrido. L’Amministrazione Obama rincorre
la lepre cinese: sui 787 miliardi di dollari di manovra di rilancio
della crescita, Washington ne stanzia una quota inferiore ma comunque
importante (112 miliardi) per l’ambiente. Più dei proclami politici,
più delle esortazioni lanciate da istituzioni internazionali,
l’ottimismo è sorretto dalla nuova attenzione che il mondo del business
rivolge all’ambiente. Un sorpasso significativo è avvenuto nel corso
del 2008, lo annuncia ora lo United Nations Environmental Program. Per
la prima volta nella storia, l’anno scorso i capitali privati
globalmente investiti nelle fonti rinnovabili (140 miliardi di dollari)
hanno superato quelli investiti negli idrocarburi e altre energie
fossili (110 miliardi). Il contributo decisivo a questo sorpasso lo
hanno dato le nazioni emergenti. Guidate da Cina e Brasile, hanno
aumentato del 27% i loro investimenti in energie pulite. Il più grande
inquinatore del pianeta sembra deciso a fare sul serio. L’ultimo
rapporto del Climate Group sulla Cina è intitolato “La Rivoluzione
Pulita”. Negli ultimi mesi Pechino ha già investito 12 miliardi di
dollari in energie rinnovabili: è seconda solo alla Germania. La
Repubblica Popolare pianifica di raddoppiare il peso delle energie
pulite portandole al 15% del totale entro il 2020. È un obiettivo
ambizioso vista la situazione di partenza: oggi l’80% della corrente in
Cina è generata da centrali termoelettriche a carbone. Anche sul
carbone, la materia prima più inquinante in termini di Co2, c’è uno
spiraglio. L’Agenzia Internazionale dell’Energia spiega che “le scelte
cinesi saranno la chiave per un uso meno inquinante del carbone, la
sfida in assoluto più urgente”. Secondo l’Aie la Repubblica Popolare
può diventare “leader nel business del carbone pulito, dove sta
sviluppando innovazioni tecnologiche uniche, che altri paesi dovrebbero
adottare”. Un segnale della nuova attenzione che si respira su questi
temi: dopo averlo ignorato per anni, il governo cinese ha accolto a
braccia aperte Al Gore. Il Premio Nobel è stato finalmente autorizzato
a organizzare un importante convegno a Pechino, sul cambiamento
climatico, con il contributo parallelo dell’Accademia delle Scienze e
dell’Asia Society di Orville Schell (un think tank di New York che in
passato non ha lesinato le critiche alla politica cinese). Il disgelo è
avvenuto con la benedizione del mondo industriale: nella recessione
globale, il business verde è uno dei pochi motori ancora trainanti. In
questo caso l’economia di mercato aiuta l’ambiente, perché è pilotata
da una guida politica. Da Washington a Pechino, il ruolo dello Stato è
cruciale nel mandare impulsi al settore privato, costruendo la nuova
cornice di incentivi e disincentivi entro cui si muove il mercato