di Marino Martini, Professore di Geochimica e Vulcanologia all’Università di Firenze
L’energia geotermica è una risorsa potenzialmente rinnovabile e
significativamente a buon mercato, che sfrutta una concentrazione
naturale di calore all’interno della crosta terrestre che prende il
nome di campo geotermico.
Tale calore è estraibile mediante circolazione naturale o artificiale
di fluidi e può essere utilizzato trasformandolo in energia meccanica o
elettrica.
Un carattere particolare dei sistemi geotermici è lo stato dinamico, a
differenza dei combustibili fossili (petrolio, gas) i cui accumuli sono
ben delimitati ed esauribili nel tempo; un sistema geotermico viene
invece ricaricato dall’ingresso di nuovi fluidi ed è quindi
teoricamente inesauribile.
I fluidi a temperature più basse (50-90 °C) possono essere usati per
riscaldamento, refrigerazione, irrigazione, impianti di serre; in
Islanda, per esempio, buona parte della popolazione viene riscaldata
mediante impianti geotermici.
I fluidi a temperature più elevate (90-380 °C) vengono utilizzati per
produrre energia elettrica. La maggior parte dei campi geotermici
utilizzabili per la produzione elettrica sono serbatoi di acqua ad alta
termalità mantenuta liquida per effetto della pressione e della
salinità.
Un sistema geotermico tipo quello descritto richiede tre condizioni naturali necessarie:
1) Anomalia termica localizzata, come fonte di calore.
2) Permeabilità delle rocce sufficiente a permettere l’infiltrazione di acqua fino a profondità di diversi chilometri.
3) Copertura impermeabile.
Se queste condizioni naturali non risultano sostanzialmente
soddisfatte, non può esistere un campo geotermico che permetta lo
sfruttamento energetico.
Nel caso ideale, la fonte di calore è ubicata in zone di vulcanismo
attivo o geologicamente recente, rocce fratturate permettono
l’infiltrazione di acque da un bacino di alimentazione sufficientemente
esteso, la copertura è data da rocce caratterizzate da sostanziale
impermeabilità.
Ovviamente, un campo geotermico è tanto più favorevole per lo sfruttamento quanto più si avvicina alle condizioni ideali.
Utilizzando una immagine che appartiene a comuni esperienze quotidiane,
un sistema geotermico è raffigurabile come una pentola a pressione, che
necessita una fiamma al di sotto, una fase liquida al suo interno, un
coperchio ermetico al di sopra; in questo modo la temperatura
all’interno può crescere ben oltre il punto di ebollizione dell’acqua a
pressione atmosferica, e si possono realizzare processi di cottura
impossibili con le pentole comuni.
Se apriamo la valvola, l’acqua contenuta viene emessa in forma di
vapore; questa operazione riproduce in piccolo le perforazioni che
raggiungono i fluidi profondi sotto pressione producendo emissione di
vapore che alimenta le centrali geotermiche. Se spengiamo la fiamma, o
la quantità di acqua diventa insufficiente o si annulla completamente,
o se il coperchio della pentola non è a tenuta ermetica, niente di
tutto ciò può avvenire, sia nell’ambito ristretto di una cucina, che
laddove si tenti lo sfruttamento geotermico.
Concentrando l’attenzione sulla zona amiatina, lo sfruttamento inizia
tra gli anni 1959 e 1961 nei campi di Bagnore e Piancastagnaio, ed il
primo studio generale delle caratteristiche geologiche e ideologiche
che rendono possibile la presenza di tali campi geotermici è contenuto
in Calamai et al. (1970) “Geology, Geophysics and Hydrogeology of the
Monte Amiata Geothermal Field”. Successivamente i contributi
scientifici dedicati alla stessa problematica sono abbastanza marginali
finchè, su commissione della Regione Toscana, Manzella (2006) e
Delcroix et al. (2006) hanno eseguito studi focalizzati sull’assetto
geostrutturale dell’apparato vulcanico del Monte Amiata e sulla
relazione fra acquiferi superficiali (idropotabili) ed acquiferi
profondi (geotermici).
In particolare, nelle conclusioni di Delcroix et al. sono espresse valutazioni esplicite di non poco rilievo:
L’instabilità dell’apparato vulcanico “ha profondamente fratturato e
fagliato l’edificio ed il suo substrato, incluse le formazioni
evaporitiche che ospitano il campo geotermico superficiale, portando le
vulcaniti stesse in diretto contatto con le rocce evaporitiche. Questi
contatti . . . . formano una naturale connessione tra acquifero
superficiale e campo geotermico . . . . Una serie di depressioni della
falda implicano un abbassamento rispetto a prima dello sfruttamento
dell’energia geotermica Tale abbassamento registra la ricarica del
campo geotermico da parte dell’acquifero superficiale ed è talmente
spinto da costituire una situazione di rischio effettivo di
inquinamento della falda acquifera idropotabile superficiale”.
Queste affermazioni sono state successivamente valutate da una
commissione dell’Università di Siena, Gaggi et al. (2008), esprimendo
come conclusione “che sulla base dei dati a disposizione le condizioni
idrodinamiche generali dell’acquifero ….. non sono significativamente
mutate negli ultimi 14 anni, se non in relazione alle diverse
condizioni di naturale alimentazione meteorica”.
Da questo insieme di contributi allo studio di un problema di per sé
assai articolato risulta evidente come non sia facile raggiungere una
valutazione condivisa, soprattutto se viene dato largo spazio ad
ipotesi e a modelli che, pur formalmente compatibili, richiedono in
fase di elaborazione scelte aleatorie da parte degli operatori. Si
rischia in tal modo di mettere in ombra i più evidenti dati di fatto
che non sono discutibili e di allontanarci progressivamente da una
valutazione lineare della situazione.
Nel prevalente interesse della comunità amiatina, quindi, sembra
raccomandabile cercare la soluzione su di una base più semplice, che
non richieda ipotesi speciali, modelli sofisticati ed interpretazioni
che possono anche risultare estremamente azzardate.
Considerando infatti che, se il fenomeno di sprofondamento del sistema
lavico dell’Amiata al di sotto della formazione impermeabile fosse
avvenuto, e l’acquifero superficiale avesse potuto raggiungere quello
geotermico, dovremmo concludere che sarebbe venuta a mancare la
condizione di sovrapressione che è necessaria per l’esistenza di
qualsiasi sistema geotermico.
La chiara evidenza che invece l’estrazione di vapore è continuata
indicando che la sovrapressione in profondità si è mantenuta, e con
essa la realtà geotermica amiatina, sembra negare ogni sostanziale
alterazione della copertura e quindi toglie qualsiasi verosimiglianza
ai rischi paventati. Ritornando poi all’esempio casalingo fatto in
precedenza, se la pentola a pressione funziona significa anche che il
coperchio è chiuso ermeticamente.
Non è inutile ribadire che questa conclusione, a proposito di quello
che è divenuto un problema assai spinoso, non rappresenta una ipotesi,
né tanto meno un modello, ma solo la presa d’atto che nell’area
amiatina sono tuttora operanti processi naturali in corso da non pochi
millenni e che, se gestiti in maniera corretta, sono destinati a durare
ancora a lungo.