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Persi in Toscana 100mila ettari di suolo eppure potrebbero produrre energia”

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«Negli ultimi vent’anni il nostro Paese ha perso 2,2 milioni di ettari dei 15 di superficie agricola disponibile, e nella nostra regione è scomparso così il dodici per cento dei terreni coltivati o boscati, oltre 100 mila ettari su 1,2 milioni. Quasi la metà della terra abbandonata è oggi coperta da strade, capannoni, ferrovie. Irrecuperabile. Il resto, invece, potrebbe esserlo, ma solo se trasformato in una risorsa energetica», racconta Enrico Bonari, coordinatore per la Scuola Sant’Anna di Pisa di Land Lab e docente ordinario di agronomia e coltivazioni erbacee

Fonte: La Repubblica- Firenze

Autore: Mario Neri

 

DESOLATI o selvaggi. Incolti o travolti dalle rovine vegetali prodotte dalle crisi agricole. Spesso calamite per alluvioni e disastri, detonatori per frane e smottamenti. Quasi sempre una scusa offerta alle frenesie cementizie della speculazione urbanistica, sono tantissimi i campi di Italia e della Toscana in abbandono, lasciati all’incuria e all’improduttività.
«Negli ultimi vent’anni il nostro Paese ha perso 2,2 milioni di ettari dei 15 di superficie agricola disponibile, e nella nostra regione è scomparso così il dodici per cento dei terreni coltivati o boscati, oltre 100 mila ettari su 1,2 milioni. Quasi la metà della terra abbandonata è oggi coperta da strade, capannoni, ferrovie. Irrecuperabile. Il resto, invece, potrebbe esserlo, ma solo se trasformato in una risorsa energetica», racconta Enrico Bonari, coordinatore per la Scuola Sant’Anna di Pisa di Land Lab e docente ordinario di agronomia e coltivazioni erbacee. La bussola scientifica del prof in questi stessi vent’anni ha orientato i suoi studi e quelli del suo gruppo di ricerca in direzione ostinata e contraria a quella che sembrava una tendenza inarrestabile generata dai «livelli sempre più alti di antropizzazione» delle campagne. Le sue ricerche dimostrano che c’è un’alternativa economica sostenibile con cui riattivare l’oro verde rimasto “quiescente”. Proprio per questi studi è stato inserito fra gli “Oscar” del “Monito del Giardino”.

 

«L’emorragia dei giacimenti verdi si può arrestare. Anzi possono essere riconvertiti in una risorsa per l’economia e in una opportunità di riqualificazione per le aziende agricole con le biomasse», dice Bonari, che stamani aprirà la sua lectio nell’aula magna dell’Università di Firenze con una premessa: «Di qui al 2050 la popolazione avrà bisogno del doppio del cibo, e so che l’idea di utilizzare le terre in abbandono per creare combustibile non va a genio a molti studiosi, soprattutto perché si teme che il loro sviluppo comporti uno spreco di acqua. Beh, i nostri esperimenti li tranquillizzeranno ». Pioppo, acacia, salice, eucalipto, miscanto: sono molte le specie che potrebbero rianimare gli agricoltori falliti della Toscana e del Paese, sfruttando queste piante da fusto per produrre legname da destinare alla co-generazione delle centrali. Sono oltre 300 i piccoli impianti alimentati da questa “rinnovabile” che si accenderanno entro il 2020. Una galassia con cui la Toscana conta di riscaldare 50mila abitazioni e far fruttare alle filiere locali energia pulita per oltre 800 milioni di euro. Per farlo però bisogna azzeccare le coltivazioni giuste. «Una delle più efficienti è la canna comune che si trova lungo i nostri fossi», racconta Bonari, «basti pensare che oggi con un ettaro si producono 32 tonnellate di biomassa, mentre con il girasole appena 28 quintali. Certo, dal punto di vista commerciale non c’è paragone, il girasole sul mercato dà maggiori garanzie ». Ma questo perché «siamo ancora agli inizi nello sviluppo delle buone pratiche ambientali». Non è detto, però, che per far crescere il combustibile necessario ad alimentare le centrali si debba consumare acqua. «Molte di queste specie non ne hanno bisogno — spiega il prof — E in altri casi, le colture agrienergetiche potrebbero svolgere una doppia funzione: si potrebbero utilizzare anche per depurare i nostri canali e i nostri fiumi dalle acque reflue di cui spesso sono invasi per la mancanza di reti fognarie ». Si chiama fitodepurazione, ed è la proprietà che hanno alcune piante di «trattenere e ripulire l’acqua da minerali come azoto e fosforo». Non solo. Le specie ideali per la produzione di biomasse hanno anche un effetto antierosione, «proteggono i terreni da frane e smottamenti perché li rendono più solidi». Inoltre «queste coltivazioni pluriennali, impiantate per 12-14 anni, riescono a “fissare” quantità di CO2 molto più alte rispetto alle tradizionali, garantendo ad appezzamenti “marginali” e improduttivi perché sabbiosi o ghiaiosi, una specie di palingenesi data da un arricchimento di sostanze organiche». Insomma, le biomasse non solo potrebbero sottrarre all’abbandono la terra ma renderla anche più fertile. E allora sì, in futuro rimetterla davvero al servizio del fabbisogno di cibo