«L’emorragia dei giacimenti verdi si può arrestare. Anzi possono essere riconvertiti in una risorsa per l’economia e in una opportunità di riqualificazione per le aziende agricole con le biomasse», dice Bonari, che stamani aprirà la sua lectio nell’aula magna dell’Università di Firenze con una premessa: «Di qui al 2050 la popolazione avrà bisogno del doppio del cibo, e so che l’idea di utilizzare le terre in abbandono per creare combustibile non va a genio a molti studiosi, soprattutto perché si teme che il loro sviluppo comporti uno spreco di acqua. Beh, i nostri esperimenti li tranquillizzeranno ». Pioppo, acacia, salice, eucalipto, miscanto: sono molte le specie che potrebbero rianimare gli agricoltori falliti della Toscana e del Paese, sfruttando queste piante da fusto per produrre legname da destinare alla co-generazione delle centrali. Sono oltre 300 i piccoli impianti alimentati da questa “rinnovabile” che si accenderanno entro il 2020. Una galassia con cui la Toscana conta di riscaldare 50mila abitazioni e far fruttare alle filiere locali energia pulita per oltre 800 milioni di euro. Per farlo però bisogna azzeccare le coltivazioni giuste. «Una delle più efficienti è la canna comune che si trova lungo i nostri fossi», racconta Bonari, «basti pensare che oggi con un ettaro si producono 32 tonnellate di biomassa, mentre con il girasole appena 28 quintali. Certo, dal punto di vista commerciale non c’è paragone, il girasole sul mercato dà maggiori garanzie ». Ma questo perché «siamo ancora agli inizi nello sviluppo delle buone pratiche ambientali». Non è detto, però, che per far crescere il combustibile necessario ad alimentare le centrali si debba consumare acqua. «Molte di queste specie non ne hanno bisogno — spiega il prof — E in altri casi, le colture agrienergetiche potrebbero svolgere una doppia funzione: si potrebbero utilizzare anche per depurare i nostri canali e i nostri fiumi dalle acque reflue di cui spesso sono invasi per la mancanza di reti fognarie ». Si chiama fitodepurazione, ed è la proprietà che hanno alcune piante di «trattenere e ripulire l’acqua da minerali come azoto e fosforo». Non solo. Le specie ideali per la produzione di biomasse hanno anche un effetto antierosione, «proteggono i terreni da frane e smottamenti perché li rendono più solidi». Inoltre «queste coltivazioni pluriennali, impiantate per 12-14 anni, riescono a “fissare” quantità di CO2 molto più alte rispetto alle tradizionali, garantendo ad appezzamenti “marginali” e improduttivi perché sabbiosi o ghiaiosi, una specie di palingenesi data da un arricchimento di sostanze organiche». Insomma, le biomasse non solo potrebbero sottrarre all’abbandono la terra ma renderla anche più fertile. E allora sì, in futuro rimetterla davvero al servizio del fabbisogno di cibo